L'America e i suoi vescovi non amano Francesco
Papa Francesco andrà negli Usa. Anzi no. C'è un problema di incomunicabilità tra il Papa preso quasi alla fine del mondo, argentino e latinoamericano, e la realtà statunitense. Un problema politico, ma anche un problema della Chiesa americana ad allinearsi alle nuove priorità messe in agenda da Francesco.
C'è un problema di incomunicabilità tra il Papa preso quasi alla fine del mondo, argentino e latinoamericano, e la realtà statunitense. Non c'entra solo il fatto che Bergoglio in America del Nord non ha mai messo piede e che l'inglese non lo parla. E' un problema di cultura, totalmente diversa. Per rendersene conto, è sufficiente scandagliare le rassegne stampa dell’ultimo anno e mezzo per trovare analisi di più o meno dotti commentatori che danno al Papa dell'anticapitalista e (senza troppe prove a sostegno della tesi urlata da qualche frequenza radiofonica del profondo Sud) del "comunista".
Problema non da poco, visto che la chiesa americana è ricca, sta bene ed è in espansione, e sempre più vuole imporre il proprio punto di vista a Roma. L'anno scorso, durante la Sede vacante, i cardinali statunitensi tenevano perfino conferenze stampa separate nelle pause tra una congregazione generale e l'altra, scatenando l'ira e la perplessità di un nutrito numero di confratelli (intervenne il decano Angelo Sodano a mettere un freno alle parole in libertà degli eminentissimi). E' di questi giorni, poi, la notizia che al Congresso è bloccata perfino la brevissima risoluzione volta a esprimere le congratulazioni al Pontefice per l'avvenuta elezione al Soglio di Pietro. Dietro il "rallentamento" vi sarebbe l'opposizione di settori importanti del Partito Repubblicano, assai critici verso le visioni "troppo liberal" di Francesco sull'economia.
E che tutto non vada come dovrebbe, lo dimostra anche il cortocircuito della scorsa settimana. L'arcivescovo di Philadelphia, il pellerossa Charles Chaput, annunciava che il Papa aveva accettato l'invito a presenziare all'Incontro mondiale delle famiglie che sarà ospitato proprio a Philadelphia nel 2015. "Il Papa mi ha detto che sta arrivando e sarà con noi il venerdì, il sabato e la domenica tra il 22 e il 27 settembre del prossimo anno". Tutto fatto, dunque? Organizzato finalmente il primo viaggio di Francesco negli Stati Uniti? Neanche per idea. Poche ore dopo l'annuncio di Chaput, il direttore della Sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi, diramava un'articolata nota in cui chiariva che "allo stato attuale non è concretamente avviato operativamente nessun progetto o programma di viaggio relativo a Stati Uniti o Messico". E le parole dell'arcivescovo di Philadelphia? "Quanto a viaggi in America vi sono stati diversi inviti, che il Papa come sempre prende in doverosa considerazione. Il Papa ha manifestato la sua disponibilità a partecipare all'incontro delle famiglie, ma si deve tener presente che vi è ancora più di un anno di tempo prima dell'incontro di Philadelphia". Insomma, a oggi non c'è nulla. Da parte di Chaput, nessun ulteriore commento.
Dietro le quinte, forse, sorpresa e sconcerto da parte di uno che fu tra i critici più determinati dell'elezione di Bergoglio, tanto da dichiarare in una lunga intervista di un anno fa al National Catholic Reporter che “l'ala destra della Chiesa non è stata molto felice" per la scelta del Conclave. Considerato tra i più allineati alla linea dei conservatori muscolari che da almeno due decenni dominano la scena ecclesiale statunitense, Chaput ha messo da parte un nutrito numero di voti alle ultime elezioni per la carica di presidente della locale Conferenza episcopale. Segno che permane, evidente, una difficoltà dei vescovi ad allinearsi alle nuove sfide e alle nuove priorità messe in agenda da Francesco: meno assilli sulla trasmissione disarticolata di dottrine e più misericordia e vicinanza agli ultimi. Il nodo ruota attorno alla questione dei princìpi cosiddetti non negoziabili, vero programma pastorale per la grande maggioranza dei vescovi americani fin dagli anni Ottanta. Non è un caso che oggi, sulle principali cattedre episcopali, siedano uomini formati alla scuola giovanpaolina e ratzingeriana, quella che archiviò la linea impersonata dal cardinale Bernardin, l'arcivescovo progressista di Chicago.
E proprio a Chicago si gioca oggi una delle partite principali per il futuro della Chiesa americana e per il suo rapporto con Roma. L'attuale vescovo, il cardinale Francis Eugene George, lascerà entro l'anno. Malato da tempo di cancro, sottoposto anche negli scorsi mesi a terapie invasive, il presule ha chiesto alla Congregazione per i Vescovi di accelerare le procedure per individuare il suo sostituto. Un compito delicatissimo, più di quanto accaduto a Colonia o Berlino. Qualunque sarà la scelta di Francesco, si deluderanno certe aspettative: se il nuovo arcivescovo di Chicago sarà su posizioni simili a quelle di George – già presidente della conferenza episcopale americana prima di Dolan e Kurtz, l'ala liberal vedrà confermate le peggiori attese, e cioè che nulla cambia.
Si ripeterebbe lo scenario tedesco, dove i settori meno conservatori del clero locale e del laicato s'attendevano una svolta dopo il lungo "regno" di Joachim Meisner. E avevano visto proprio in Francesco l'occasione per scardinare un modello iniziato nel 1988 e durato fino a pochi mesi fa. Ma anche in quel caso, la terna proposta dal Capitolo (comprendente anche l'innovatore Stephen Ackermann, per il quale l'insegnamento morale della chiesa è ormai incomprensibile ai fedeli) fu rispedita al mittente da Roma, e al posto di Meisner fu messo il cardinale Rainher Maria Woelki, già ausiliare dello stesso Meisner.
Se a Chicago, invece, si deciderà di svoltare, tornando alla linea-Bernardin, ad andare in crisi sarebbe la grande maggioranza dell'episcopato, che vedrebbe nella nomina del successore di George il primo e vero atto di governo di Bergoglio circa la Chiesa statunitense. Tra i due estremi è probabile, alla fine, che la scelta ricada su una figura più sfumata, di compromesso. Che non lanci dardi dai pulpiti delle chiese per riaffermare il valore dei cosiddetti princìpi non negoziabili (definizione che Francesco, al Corriere della Sera, ha detto di non comprendere) ma che non si lanci neppure in strade diametralmente opposte da quelle perseguite fino a oggi. Una soluzione à la Kurtz, il neopresidente della Conferenza episcopale americana, un moderato che ha poco in comune con il conservatorismo muscolare di Dolan & co.