«Lambert deve morire». Così la UE reintroduce la pena di morte
Da sette anni è in stato vegetativo: i giudici prima francesi poi europei danno ragione alla moglie - contro genitori e figli - e lo condannano a morire di fame e di sete in nome della tutela della vita e dell'autodeterminazione delle persone. È l'esito aberrante di una concezione distorta della libertà.
Deve morire. È questa la decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo. Il condannato a morte è il tetraplegico nonché 38enne Vincent Lambert che da sette anni, secondo i giudici, versa nel cosiddetto “stato vegetativo” (espressione comunque erronea perché è preferibile usare l’espressione “sindrome a-relazionale”), seppur nel 2011 la diagnosi fu di stato di minima coscienza.
La moglie aveva chiesto ai tribunali francesi di non tenere più in vita il marito e il Consiglio di Stato le aveva dato ragione. Contro questa sentenza avevano fatto ricorso i genitori di Lambert, sostenuti anche dai figli, appellandosi alla Corte di Strasburgo. Il 5 giugno scorso i giudici europei hanno confermato la decisione dei colleghi francesi. E così la pena di morte, formalmente abolita in Francia, ritorna ammantata dai seducenti panni dell’eutanasia.
I giudici hanno dichiarato che «se anche lo stato medico più grave, compresa la perdita irreversibile della coscienza, non è sufficiente a giustificare l’interruzione del trattamento, un’attenzione particolare deve essere data alla volontà del paziente. Risulta che, prima dell’incidente, Vincent Lambert avesse chiaramente e a più riprese espresso il desiderio di non essere mantenuto artificialmente in vita». E più avanti così chiosa: occorre trovare «un equilibrio tra la protezione del diritto alla vita del paziente e la protezione del diritto alla sua vita privata e alla sua autonomia». Il passaggio merita almeno due riflessioni.
La vita è un bene indisponibile, cioè sottratto alla disponibilità non solo di altre persone – moglie, medici, etc. – ma anche del titolare del bene stesso. Così, per paradosso, si espresse la stessa Corte europea nel 2002. Non possiamo disfarci della nostra vita a motivo della preziosità intrinseca ed elevatissima della vita stessa. In soldoni, non puoi toglierti la vita perché questa vale troppo, anche se sei allettato da anni, anche se hai perso coscienza di te e del mondo esterno, anche se non riesci a comunicare, anche se non riesci più a porti dei fini intellegibili.
Non sono mai queste ed altre funzioni a fondare la preziosità della persona, bensì solo la manifestano all’esterno, l’appalesano agli altri. La dignità della persona risiede semplicemente nell’essere umano vivente, al di là del fatto che riesca o non riesca a compiere alcuni atti. Èdunque errato affermare: «Dal momento che riesci ad avere coscienza del mondo ed a comunicare, allora la tua vita ha dignità». Bensì è vero l’esatto opposto: «Dato che tu possiedi una tua dignità intrinseca, se le condizioni fisiche e ambientali te lo permetteranno, potrai dar prova agli altri, con atti conseguenti, di questa tua preziosità».
La seconda riflessione riguarda la volontà di Lambert di morire. Ammesso e non concesso che sia lecito togliersi la vita, chi ci dice che in questi sette anni il sig. Lambert non abbia cambiato idea? Una cosa è decidere della propria morte da sani, un’altra quando si è gravemente ammalati. Staccare la spina a questo disabile significa, prima ancora di uccidere il suo corpo, uccidere la sua libertà che, se oggi potesse essere manifestata, forse si orienterebbe alla vita.
La sentenza così prosegue: «L’interpretazione data dal Consiglio di Stato della legislazione francese - la legge Lionetti - e la procedura seguita per arrivare alla decisione, condotta in maniera meticolosa, è compatibile con i requisiti imposti dall’articolo 2 della Convenzione europea dei diritti umani, che tutela il diritto alla vita». Paradossale che far morire una persona significa tutelarne la vita. Il carpiato doppio fatto dai giudici prima francesi e poi europei per giustificare l’omicidio di Lambert è il seguente: la legge Leonetti non permette l’eutanasia ma considera lecito interrompere quelle cure che configurano accanimento terapeutico. Tale interruzione è in perfetta sintonia con l’art. 2 che tutela la vita. Far soffrire inutilmente una persona non è forse un attentato al diritto alla vita?
Dato che il sig. Lambert non è afflitto da nessuna patologia specifica e non è neppure in fin di vita, i giudici hanno pensato bene di qualificare alimentazione e idratazione come cure. Ergo è legittimo far morire il paziente per fame e per sete perché in questo caso alimentazione e idratazione configurano accanimento terapeutico. Ma acqua, cibo e ossigeno non sono terapie, bensì mezzi di sostentamento vitale che vanno a soddisfare esigenze fisiologiche e non vanno a riparare eventi patologici. E dunque acqua e cibo mai possono configurare accanimento terapeutico (eccetto in quei casi in cui è materialmente impossibile alimentare o idratare il paziente).
Morale della favola noir. Chi intendeva l’eutanasia come strumento per tutelare l’autodeterminazione del paziente si ritrova dei giudici che, ben eterodeterminati, decidono a posto del paziente sulla sua vita. Chi voleva l’eutanasia solo per i moribondi si ritrova l’eutanasia anche per le persone non in fin di vita. Chi voleva l’eutanasia per non far soffrire inutilmente il moribondo, si ritrova una sentenza che ordina di uccidere una persona affamandola e assetandola, costringendola dunque ad una fine lenta e crudele. Questo il lascito della Corte europea contro i diritti dell’uomo.