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MEDIO ORIENTE

L'altra metà di Gaza, sospesi fra la vita e la morte

15 secondi. È il tempo che si ha a disposizione per correre nel bunker e salvarsi la vita, quando l'allarme segnala l'arrivo di un razzo Qassam. È così da dodici anni nelle comunità israeliane della Striscia di Gaza. Eppure il 95% della popolazione ha deciso di restare.

Esteri 06_06_2013
Guerra a Gaza

Striscia di Gaza, in questo angolo di terra il conflitto è entrato nella vita di tutti i giorni. La guerra la si fa in due. Anche se i servizi giornalistici sono quasi sempre riferiti a Gaza, a di là del valico di Karni, al di qua, in territorio israeliano, il lavoro nei campi (qui è terra di contadini) non segue i cicli naturali, ma quelli del conflitto. Gli agricoltori e i braccianti, sia israeliani che immigrati stranieri, possono coltivare solo tra un allarme e l’altro. I bunker, costruiti a fianco delle serre, dentro le case, sui marciapiedi, ad ogni fermata d’autobus, sono l’ultimo bastione fra la vita e la morte. Un allarme dà giusto il tempo di mettersi al riparo: pochi secondi, niente di più, separano il momento del suono “colore rosso” e quello dell’impatto del razzo lanciato da Hamas, dall’altra parte del confine. Un confine invisibile, marcato qua e là da postazioni di tiro (scavate nella terra, con ripari di fortuna in cemento armato) dove si posizionano i carri armati Merkava nei momenti di massima tensione, qualche tratto fortificato e tanti, tantissimi sensori elettronici.

“Una soldatessa, a 26 km da qui – ci spiega un uomo della sicurezza, che chiameremo Raffi – è collegata con le postazioni di mitragliatrici automatiche e con le telecamere più avanzate. Vede ogni spostamento nelle vie di accesso a Gaza. Se individua qualche attività sospetta, può connettersi in video con il comandante di zona, che vede il tutto in tempo reale. Nel caso la minaccia sia reale, chiede l’autorizzazione a sparare. Se la ottiene, sarà lei a puntare le mitragliatrici automatiche sul bersaglio e ad aprire il fuoco”. Da 26 km di distanza. E’ il nuovo modo di fare la guerra, rischiando meno soldati possibili. “Quelle mitragliatrici automatiche hanno già salvato centinaia di vite”, ci spiega Raffi: dare la morte, in territorio nemico, preserva vite al di qua del confine. Ma non sempre funziona. Le telecamere di sorveglianza, le torri dei radar che spuntano come funghi lungo i margini della Striscia, i palloni frenati che ci sorvolano silenziosi e fissi nel cielo (non portano più uomini muniti di binocolo, ma altri radar e sensori) sono descritti, dai palestinesi e dai loro numerosi alleati, come strumenti di controllo totalitario, occhi elettronici che spiano le vite dentro Gaza, “prigione a cielo aperto”, “nuovo ghetto di Varsavia”, “grande campo di concentramento per palestinesi”. Ma gli stessi strumenti di sorveglianza e guerra elettronica sono gli unici che possono dare un certo senso di sicurezza agli uomini, alle donne, ai bambini che vivono e lavorano in queste campagne israeliane. Certo, Hamas e la miriade di associazioni terroristiche proliferate a Gaza si nascondono bene, portano i loro rudimentali (ma letali) razzi Qassam ovunque, anche a spalla. I lanci avvengono molto di frequente. E a questo punto la corsa verso i bunker, è l’unico modo di salvarsi la pelle.

In molti casi la situazione è disperata e le autorità locali non sanno come fare: “Dopo l’operazione Colonna di Fumo (campagna aerea contro Hamas, novembre 2012, ndr) il governo ha suggerito di rafforzare le difese di una fascia di territorio profonda oltre i 7 km dal confine prescritti in precedenza – ci spiega Tamir Idan, sindaco del comune di Sdot Negev, uno dei più esposti in assoluto – ma solo il 50% delle case è riuscito a dotarsi di una stanza blindata. L’altra metà è tuttora esposta al rischio di distruzione. La mia è una popolazione anziana e non sempre ha i mezzi per difendersi al meglio. In questi giorni, un signore in pensione è venuto a chiedermi aiuto, perché abita oltre la fascia dei 7 km, entro la quale il governo finanzia le difese dei privati e non ha abbastanza soldi per farsi il suo bunker. È riuscito a racimolare 45mila shekel (circa 9mila euro) ma gliene servono almeno il doppio. Io purtroppo non ho potuto dargli alcun aiuto, perché sono troppi gli uomini e le donne nelle sue stesse condizioni”. La pioggia di razzi è iniziata nel 2001, cinque anni prima che Hamas vincesse le elezioni a Gaza, sei anni prima che gli israeliani imponessero il blocco alla città.

E non è mai finita. “Il novembre scorso, prima e durante Colonna di Fumo, per noi è stato un incubo: 148 razzi, solo in questo comune in un solo mese – ci spiega il sindaco di Sdot Negev – È una situazione indescrivibile, che non ti lascia respirare: un allarme dietro l’altro, sempre a correre nei bunker, mollando tutto quello che si sta facendo. Dopo Colonna di Fumo stiamo vivendo un periodo relativamente più tranquillo, che noi siamo soliti chiamare ‘pace’. In realtà i razzi arrivano ancora, meno di frequente. Solo che, fortunatamente, non hanno ammazzato nessuno”. In caso di allarme, “hai solo 15 secondi per andare nel rifugio più vicino, o correre nella stanza blindata. Nelle case che non riescono a dotarsi di una di queste, la gente si deve riparare infilandosi sotto i tavoli”. E sperare di non essere colpiti, perché un Qassam o, ancora peggio, un più avanzato razzo Grad, possono distruggere completamente un edificio.

Incontriamo il sindaco Tamir Idan nel kibbutz di Saada, a pochi chilometri da Gaza (che si vede, oltre i campi di girasole). “Non è il confine fra Francia e Svizzera – ci spiega – qui è lotta di sopravvivenza, tutti i giorni”. I bambini del kibbutz studiano in una scuola-fortezza, senza finestre: da ogni apertura possono entrare le schegge. Muri spessi poco più di mezzo metro: “ci riparano anche dai razzi Grad” – ci spiegano. Giocano a calcio, fra un bunker e l’altro. Nonostante tutto giocano, si divertono, gli abitanti del kibbutz fanno di tutto per vivere una vita normale. I bunker sono molto colorati e danno un tocco di creatività al paesaggio rurale. I giardini e gli immensi spazi verdi del kibbutz sono un tripudio di fioriture primaverili: fra un allarme e l’altro, evidentemente, c’è ancora chi ha la pazienza di curare il verde pubblico. Ovunque si percepisce una grandissima voglia di vivere. “Il 95% della gente ha deciso di restare, non c’è una grande fuga – ci spiega il sindaco – è difficile spiegare il perché. La gente di qui è molto credente e anche molto ottimista. Sentono intimamente il senso della comunità. Ci sentiamo protetti fra di noi. E inoltre i razzi arrivano anche a Beersheva, ad Ashkelon, persino a Tel Aviv, come abbiamo visto a novembre. E quindi dove potremmo mai scappare per sentirci più al sicuro?”. Parole e scenari di una guerra lontana, che però ci appare sempre più vicina. Quando anche le città europee non saranno più un rifugio sicuro?