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TRA LE RIGHE

La vita accanto

Brillante romanzo di Maria Pia Veladiano. Con una prosa limpidissima è raccontata la storia di Rebecca, una bimba molto brutta che scopre la sapienza dell'anima, cuore della vera bellezza.

Tra le righe 19_11_2011
La vita accanto ok

Se la vecchiaia, si dice, è l’inferno delle donne belle, la bruttezza potrebbe essere l’inferno di ogni donna. La nostra fisicità ci definisce, ci limita e forgia anche il carattere: ciò è tanto più vero, spesso dolorosamente, per una donna; a maggior ragione per una donna brutta. Il breve romanzo di Maria Pia Veladiano, in una prosa tersa e limpidissima, racconta appunto la storia crudele di Rebecca, una bambina molto molto brutta, irrimediabilmente brutta, vissuta poco meno che come reclusa nella sua bella casa, nel  centro storico di una non meno elegante e linda cittadina di provincia mai nominata, ma facilmente identificabile in Vicenza.

Il bello di La vita accanto sta nel fatto che non propone facili consolazioni, o soluzioni buoniste: qui il conflitto non viene aggirato, ma, anzi, presentato in tutta la sua ineludibile durezza. Non siamo in una favola, e Rebecca non diventerà mai bella. Diventerà, con qualche accorgimento medico-estetico, nell’età adulta, poco meno che mostruosa; ma i suoi primi anni passeranno sotto il segno di un crudele isolamento. Eppure, proprio in questa esistenza per forza di cose così povera di contatti e così appartata, la vita accanto del titolo, si cela una possibilità di riscatto: Rebecca ha infatti un grande talento per la musica, e questo, insieme a Maddalena, la fida governante, ad Albertina, una maestra sensibile e intelligente, a Lucilla, una compagna di classe impicciona e chiacchierona, ma buona e sincera, e unitamente a un maestro di musica dal cuore grande, e alla sua anziana madre, aiuterà Rebecca a crescere pacificata con se stessa.

Leggendo La vita accanto non può non venire in mente la frase di Dostoevskij per cui “la bellezza salverà il mondo”: proprio perché la bellezza cui si riferisce l’Idiota non è la carineria, non si vede con gli occhi, ma è un’altra, più sottile e più durevole. Rebecca, in effetti, capisce sin da piccola che la sua esistenza è segnata: “Nascere brutta è come nascere con una malattia cronica, che può solo peggiorare con l’età” (p. 36). La vita, per una donna brutta, è una rinuncia perenne, un’autolimitazione continua: “Una donna brutta non sa dire i propri desideri. Conosce solo quelli che può permettersi…Il possibile di una donna brutta è così stretto da strizzare il desiderio” (p. 3) Parallelamente alla vicenda di Rebecca, si snoda quella, più sfortunata perché senz’ombra di redenzione, di sua madre. La bambina, infatti, cresce nella convinzione che costei l’abbia rifiutata perché colpita dalla bruttezza senza rimedio della figlia; invece, come scoprirà solo dopo anni, la poveretta era soltanto molto depressa; eppure, diversamente dalla figlia, la donna, a dispetto della sua bellezza, non ha trovato in famiglia nessuno che le tendesse una mano: non il marito, medico di successo, bello e brillante nella professione, ma inetto nei rapporti umani; non la cognata Erminia, brillante e affascinante, ma infida e narcisista.

Sullo sfondo, tutta la cattiveria di cui può essere capace una cittadina di provincia, ipocrita e pettegola, in cui si vive sigillati nel classismo e nell’ignoranza e in cui, proprio come nel letto del torrente che scorre dietro casa di Rebecca, più si scava e più marciume occultato si scopre. Eppure, inaspettatamente, tra la figlia e la madre è la prima, quella che in apparenza, fra le due, è più sventurata, a rialzarsi: nel finale, Rebecca si costruisce infatti una sua normalità, inventandosi una professione, e accogliendo in casa l’antica amica Lucilla con la figlioletta; certo, è consapevole del fatto che “potrebbe vivere diversamente: se fosse più brillante, più capace di dimenticarsi e di dimenticare il suo aspetto” (p. 162). Ma va bene così: in fondo, suo padre, che pure è oggettivamente bellissimo, è stato incapace di affrontare il mondo e le sue responsabilità. Il romanzo si apre con accenti inquietanti, ma dalla conclusione spira una gran pace.

La chiave di lettura ultimativa del libro potrebbe stare tutta nella frase: “dei troppi saperi sono pieni i cimiteri” (p. 77). Il detto, popolare, se vogliamo, e non a caso fatto pronunciare a Maddalena, la domestica, forte di una fede semplice e di una bontà naturale (“che il Signore ti conservi”è il suo refrain prediletto), centra il senso profondo della Vita accanto: c’è una sapienza dell’anima, del cuore e della mente che esula dall’essere intelligente o sciocco, colto o ignorante, bello o brutto; e proprio perché possiede questa sapienza, Rebecca è davvero bella.

 

Maria Pia Veladiano
La vita accanto
Einaudi, pagine 172, euro 16.