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EDITORIALE

La versione di Motta (Visconti)

Il marito che uccide moglie e figlie perché si è invaghito (non corrisposto) di una collega è una tragedia che trova una spiegazione in una società dove detta legge il desiderio incoercibile del "paradiso ora". Come nel film tratto dal celebre libro di Mordechai Richler.

Editoriali 18_06_2014
La coppia di Motta Visconti

È statisticamente assodato che la maggior parte degli omicidi “comuni” si consuma tra le pareti domestiche. La famiglia, diciamo noi cattolici, è sotto attacco ma, dicono gli altri, la famiglia è già allo sfascio, perciò darle il colpo di grazia non cambierà molto. È come dire che, essendo la mia auto vecchia e scassata, tanto vale andare a piedi anziché ripararla. Ma sia.

Che cosa ha ridotto la famiglia in questo stato? Divorzio e aborto sono solo leggi che hanno sancito democraticamente ciò che il popolo voleva. Dunque, il problema, come si suol dire, è a monte. E sta in quel che è stato chiamato «cultura del desiderio», un desiderio di felicità qui e subito (il «paradise now!» dei Seventies) che non ammette ostacoli e che viene alimentato da decenni dalla letteratura di massa, anche e soprattutto nella sua versione cinematografica.

Prendiamo, per esempio, l’ultimo delitto familiare, quello di Motta Visconti. Lui ha ucciso la moglie e i due figlioletti, poi ha inscenato una maldestra «rapina finita male» e, per procurarsi chissà quale alibi, è andato da amici a vedere il mondiale di calcio. Tornato nella villetta, ha «scoperto» l’eccidio e, «sconvolto», ha avvisato la polizia. La quale non ci ha messo molto a capire com’erano andate davvero le cose. L’assassino ha confessato il movente: si era invaghito di una collega di lavoro ma questa, fidanzata, l’aveva respinto.

Sì, avrebbe potuto dire alla moglie che non l’amava più, che intendeva lasciarla per insistere, a mani libere, con la collega. Ma avrebbe significato una montagna di seccature. Pianti, scenate, litigi, sensi di colpa coi figli, lasciare l’abitazione a lei, rompere con suoceri, parenti e amicizie (in un piccolo centro tutto ciò può essere davvero fastidioso). Senza contare che questo strascico di problemi avrebbe potuto costituire un ulteriore deterrente per la famosa collega riluttante. Forse, in una mente già obnubilata (per dire il meno), l’idea di presentarsi come persona colpita da tragedia e perciò degna di consolazione deve essersi fatta strada, aprendo la via all’opzione «divorzio all’italiana» (vecchio film di quando il divorzio non c’era). Già, ma perché i bambini? Testimoni. E poi, quando ti sei messo in testa che vuoi «un’altra vita» tutto può accadere.

Ho personalmente conosciuto uomini vittime della stessa tentazione: avevano una bella famiglia, figli, casetta e sereno tran-tran. Poi, di colpo, quella vita è diventata per loro intollerabile. Troppo “normale”, senza più «stimoli», un lento fiume tranquillo che scivolava inesorabile verso la vecchiaia. Così, hanno detto basta e se ne sono andati, tra lo stupore doloroso di quanti erano loro legati e che non hanno mai capito il motivo di quella decisione. Il motivo c’era, certo, ma stava tutto nella testa di chi aveva rovesciato il tavolo, perciò era invisibile all’esterno.

Il caso di Motta Visconti è ovviamente più estremo, perché ha comportato l’efferato omicidio di tre innocenti, per giunta inconsapevoli (la moglie, infatti, sotto le coltellate gridava «perché?»). Ma il motivo è lo stesso. Per pura coincidenza pochissime sere prima un canale televisivo aveva trasmesso il film La versione di Barney (chissà se l’assassino l’ha visto), con Paul Giamatti e Rosamunde Pike. È stato tratto da un fortunatissimo bestseller internazionale (stesso titolo) di Mordechai Richler, uscito da noi nella raffinate edizioni Adelphi. Tanto fortunato che quel titolo divenne una specie di tormentone (se ne appropriò anche Il Foglio per una sua rubrica). Il libro non l’ho letto ma il film l’ho visto.

La storia, in sintesi, è questa: un impresario televisivo, la cui prima moglie è morta suicida, si risposa. Durante il rinfresco delle nozze perde la testa per una bella invitata e le si dichiara. Lei, naturalmente, lo manda a quel paese. Ma lui, per anni, la tempesta di telefonate, inviti e fiori, perché si è messo in testa che è lei «quella giusta», la donna della sua vita. Con lei avrà il suo «paradise now!», quella felicità in terra che vuole a tutti i costi e chissenefrega di un matrimonio contratto perché, al momento, gli sembrava una bella cosa. Finalmente riesce a divorziare e quella cede. Con lei instaura un matrimonio perfetto, due figli. Poi i figli crescono e lei, che è della stessa pasta di lui, reclama un «suo spazio» di indipendenza. Lui, triste, subisce il «diritto alla felicità» di lei. Ma, una sera che è solo e ubriaco, finisce a letto con una che l’ha adescato in un bar per single. Quando la moglie torna, lui, sempre innamorato, le confessa lo scivolone. Lei per tutta riposta lo lascia e si risposa con un collega di lavoro (un fissato vegetariano e animalista). Lui si chiude nel suo dolore e finisce, anziano e malato, per morire solo.

Ora, qual è la parte a mio avviso subdola di tutta questa storia? Quella centrale, in cui c’è uno che persegue il suo incoercibile desiderio di «paradise now!» e, per realizzarlo, si sbarazza di ogni ostacolo (umano). E lo ottiene, senza che la storia dia alcun giudizio di valore su tale operato. È vero, alla fine trova qualcuno più furbo di lui. Ma intanto il suo sogno di «amore perfetto» si è realizzato ed è pure durato anni. Non solo. Se a lui alla fine gira male, lei, pur ragionando come lui, è vincente. Morale: segui il tuo desiderio, costi (agli altri) quel che costi. In fondo, è quanto sta facendo la nostra società, sempre più individualista e, dunque, «liquida», con legami che si stringono e si disfano in base al desiderio del momento. Qualcuno, ogni tanto, esagera e deve intervenire il codice penale. Per tutti gli altri, la vita «liquida», quando non è fonte di sofferenza, lo è almeno di ansia.