La verità interiore di Giulio Andreotti
A un anno dalla morte dello statista democristiano la famiglia Andreotti ha diffuso suoi scritti privati e inediti del 1978 (Aldo Moro) e tra il 1994 e il 2005 (gli anni dei processi). Ne esce una figura solare, ben lontana dagli stereotipi.
Nei giorni scorsi è stata commemorata la figura di Giulio Andreotti, deceduto il 6 maggio di un anno fa. Una delle figure più controverse della storia repubblicana continua a far parlare di sé attraverso suoi scritti inediti diffusi dalla famiglia. In particolare i familiari del compianto senatore a vita hanno deciso di rendere pubbliche in questi giorni sei lettere scritte a mano da Andreotti. La prima è del 1978, anno del rapimento e dell'uccisione di Aldo Moro. Le altre cinque sono state scritte tra il 1994 e il 2005 e svelano la sofferenza di uno statista impegnato in due processi, a Perugia e a Palermo e le fragilità di chi si sente minacciato perfino nella sua incolumità.
Tra famiglia e fede cattolica, emerge un ritratto solare e molto lontano dallo stereotipo dell'uomo di potere cinico e indecifrabile che lo ha accompagnato per larga parte della sua esistenza. Si legge in una lettera: "Nella mia vita ho avuto tanto: incarichi, onore, fiducia, riconoscimenti accademici. Che potevo offrire in cambio alla Provvidenza divina? Forse questi anni di sofferenze e di calunnie servono a bilanciare un corso di vita tutto favorevole. Sarebbe ingiusto avere lo stesso premio eterno dei poveri che, senza una casa o un lavoro, affollano le chiese chiedendo un aiuto che non sempre possiamo dar loro". E in un'altra, ripetendo la sua estraneità alle accuse di complicità con la mafia e di responsabilità negli omicidi di Pecorelli e Dalla Chiesa e il suo fastidio per le accuse di scarso impegno dei vertici Dc per salvare la vita di Aldo Moro, raccomanda ai posteri di aiutare un vecchietto che spesso bussa al suo portone, chiede aiuto per la costruzione di una cappella nella sua parrocchia, mostra un lato umano assai sensibile e quasi commovente e disarmante, che stride e fa a pugni con le diffuse maldicenze contro di lui ("ipocrita, doppiogiochista...").
La delicatezza della coscienza di Andreotti, che emerge dalla lettura di quelle lettere, riporta al tema più generale della verità interiore, che spesso cozza con l'immagine che di un personaggio si diffonde nell'opinione pubblica. L'ex Presidente del Consiglio scrive quelle lettere scrutandosi dentro e si confronta quotidianamente con la precarietà della vicenda umana, mostrando le sue debolezze e le sue paure, confidando i suoi timori ma anche le sue speranze. In quegli scritti, a tratti accorati, non c'è niente che ricordi Belzebù, il burattinaio, il manovratore, tutte etichette appioppate addosso ad Andreotti, considerato l'incarnazione del potere più spregiudicato. E allora una riflessione sull'equilibrio tra dimensione pubblica e affari privati dei personaggi noti si impone. Tanti leader politici e di altri ambiti della vita pubblica vengono spesso dipinti dai media nei loro aspetti deteriori e discutibili, ma queste descrizioni tranchant spesso fanno velo a una valutazione più equilibrata e realistica di quei soggetti. Persone accusate di misfatti di ogni tipo o esponenti politici di dubbia moralità coltivano in realtà nel privato attività assai nobili come il volontariato o la beneficienza e meriterebbero rispetto. Un rispetto che a volte ricevono solo post mortem. La superficialità di molti osservatori, giornalisti e non, ingigantisce alcuni aspetti della vita pubblica dei cosiddetti vip, oscurando altri aspetti della loro personalità ritenuti marginali ma che, se opportunamente comunicati e valorizzati mediaticamente, concorrerebbero a tratteggiarne un profilo più fedele al vero. Quanti esponenti del mondo della finanza finiscono nel tritacarne mediatico per operazioni sospette, indagini scottanti, ma poi nel privato conducono una vita sobria, dedita alla famiglia, alla coltivazione dei valori connessi alla loro fede cattolica, eppure alla gente comune appaiono come persone disoneste?
La lezione di Andreotti dovrebbe farci riflettere e suggerire a tutti una maggiore prudenza nel giudicare la vita privata dei personaggi pubblici. Ripristinare, in sede di ricostruzione storica post mortem, il dominio della verità e il sano equilibrio valutativo che ogni persona merita, è certamente utile, ma sarebbe altresì opportuno che, anche nella quotidianità del vissuto di quei personaggi pubblici, nei giudizi che si danno su di loro ci fosse la piena consapevolezza della poliedricità dell'animo umano. La persona ha mille sfaccettature e non è giusto che solo alcune di esse determinino giudizi sommari e fuorvianti su soggetti che in alcuni casi hanno fatto la storia d'Italia. Anche la dimensione della fede, spesso sottovalutata, alimenta negli uomini di potere un'ispirazione non sempre leggibile nelle loro azioni. Ma nessuno ha titolo a giudicare la loro coerenza. I percorsi tortuosi e insondabili che il disegno divino compie nelle nostre vite passano attraverso errori, cadute, peccati che anche molti personaggi pubblici commettono e che, essendo esposti ai riflettori dei media, sono maggiormente visibili e più facilmente censurabili. Guai, però, a comprimere la complessità dell'interiorità umana entro i confini dell'efficienza controllabile e del visibile criticabile. La persona ha sempre un'ulteriorità di senso e di significato che va rispettata, si tratti di Andreotti o di qualsiasi altra personalità pubblica.