La vera storia della Monaca di Monza
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Gli atti del processo della Monaca di Monza riservano non poche sorprese. I fatti andarono ben diversamente da come raccontati nei Promessi Sposi. Manzoni, ad esempio, non conosceva il vero nome della suora. Che riconobbe i suoi peccati, visse da penitente e morì in odore di santità.
Gli atti del processo della Monaca di Monza furono resi accessibili a tutti solo dopo la loro pubblicazione nel 1985. Manzoni li poté, invece, consultare solo tra il 1835 e il 1840, quando la storia della monaca aveva già preso forma definitiva con la prima edizione dei Promessi sposi (1827). Di certo lo scrittore non li consultò integralmente.
La lettura degli atti riserva non poche sorprese. In primo luogo non compare alcun riferimento o allusione ad una monacazione forzata e al carattere burbero, irrequieto della monaca, donna senz’altro abituata a comandare, considerato il prestigio della famiglia a cui appartiene. Non vi è alcuna traccia di quella Gertrude seducente e provocatoria, che è grande creazione dello scrittore Manzoni.
In secondo luogo, nella realtà, i fatti andarono ben diversamente da come li raccontò Manzoni. Nel 1598, ben trent’anni prima rispetto all’ambientazione del romanzo, Gian Paolo Osio si rivolse ad una monaca, che suor Maria Virginia de Leyva riprese. Osio apostrofò allora quest’ultima, generando in lei fastidio e riprovazione. Entrarono più tardi in scena due suore (Ottavia e Benedetta) e un prete (don Paolo Arrigone) che progettarono l’incontro tra suor Virginia e il giovane. Nacque un rapporto affettivo che durò per ben nove anni e che portò alla nascita di due figli, uno partorito morto in cella e una bimba invece legittimata da Osio. Il giovane entrò e uscì dal convento per anni. Un giorno, una conversa, che aveva manifestato l’intenzione di rivelare a tutti l’intreccio amoroso, fu uccisa. Non risulta che sia stata suor Virginia a chiedere a Osio l’assassinio. Le notizie della relazione di Osio con suor Virginia si diffusero per Monza e Milano. L’arcivescovo, il cardinale Federigo Borromeo, fece celermente aprire un’inchiesta e iniziò il processo.
In terzo luogo, suor Virginia appare ben conscia della colpa, trascinata nella relazione da una sorta di forza nascosta, a cui non riesce ad opporsi, come se succube di un maleficio. Il giudice cercò di non coinvolgere l’intero monastero, punì i colpevoli senza far ricadere le responsabilità di pochi su tutti. Suor Virginia Maria fu condannata a digiunare il sesto giorno della settimana per cinque anni, possibilmente a pane e acqua, e a recitare le ore canoniche quotidianamente con diligenza, pietà e devozione. L’arcivescovo riconobbe più tardi il sincero pentimento della monaca e dopo quasi 14 anni di pena le concesse di uscire dalla cella murata della Casa delle Convertite di Santa Valeria (a Milano), in cui era stata rinchiusa.
Osio inviò all’arcivescovo una lettera in cui emergeva un uomo ancora follemente innamorato di suor Virginia, che cercava in tutti i modi di difenderla, che manifestava il desiderio di trovare perdono presso Dio e presso l’arcivescovo. In quanto non appartenente al clero, Osio avrebbe dovuto presentarsi al processo laico, ma non lo fece. Osio si rifugiò in casa di un amico, il conte Ludovico Taverna, credendo di essere al sicuro. Non fu così. Venne decapitato nella cantina. Il suo capo fu gettato lungo la strada ai piedi del governatore di Milano, il conte di Fuentes.
Manzoni non conosceva il nome reale della Monaca di Monza e per questo le attribuì il nome di Gertrude, rifacendosi probabilmente a santa Gertrude di Nivelles (c. 628-664), figlia di Pipino di Landen, di cui venne a conoscenza quando studiò l’epoca longobarda e la vita dei Franchi per la stesura dell’Adelchi. Morto il padre di Gertrude, la madre Itta divenne monaca e fondò un monastero. Ben presto Gertrude la seguì divenendo più tardi badessa e impegnandosi a istruire nella fede i monaci e le monache. La santa di Nivelles richiama la figura della Monaca di Monza, perché divenne badessa (aspirazione che la famiglia della Monaca di Monza aveva sempre suscitato in lei), fu canonizzata (divenendo modello di santità per ogni monaca) e, infine, in un’immagine del XVI secolo fu ritratta mentre era assalita dai topi (attestazione del fatto che la monaca era considerata protettrice contro le invasioni dei topi, uno dei veicoli privilegiati della peste).
Fu Cesare Cantù, amico di Manzoni, ad identificare la Monaca di Monza con la figura di suor Virginia Maria de Leyva, al secolo Marianna, nata nel 1575, figlia di don Martino de Leyva, principe d’Ascoli e conte di Monza, rimasta orfana di madre, entrata nel convento di Santa Margherita a Monza, ove pronunciò i voti solenni a 16 anni col nome di Virginia Maria (il nome della madre).
Manzoni contravvenne al principio del vero storico, perché ambientò I promessi sposi nel 1628, quando già da vent’anni Gian Paolo Osio (l’Egidio del romanzo) era morto e la Monaca di Monza era in clausura a Milano. Il romanziere creò un personaggio immortale che, sollevandosi dal mondo storico, entrò per sempre nell’universo letterario di ogni tempo. In che modo? Lo scrittore non raccontò tutta la vita della donna, ridusse la storia ad un breve arco di tempo così da tratteggiare un’immagine nera, un po’ gotica e maledetta, di una figlia che non seppe reagire alla sopraffazione paterna e non trovò riscatto e redenzione nella sua vocazione.
Come finì la storia della Monaca di Monza nella realtà? Nel processo la monaca riconobbe le sue colpe. Rinchiusa, come detto, per quasi 14 anni, fu scarcerata nel 1622. Ma volle comunque rimanere nel Ritiro di Santa Valeria, dove visse penitente fino al 1650 e morì in odore di santità.