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OCCIDENTE

La vera battaglia contro il terrorismo

Contro un terrorismo islamista sempre più imprevedibile, condotto da "lupi solitari" non organizzati, è ancor più importante vincere la battaglia culturale. La fragile cultura relativista non è in grado di far da barriera, né di conquistare il rispetto dell'islam. Più che mai è utile l'impegno dei cristiani.

Editoriali 22_07_2015
Terrorismo

Come le organizzazioni terroristiche islamiste hanno capito molto bene, sia nel mondo musulmano che nella diaspora il rancore furioso nei confronti dell’Occidente è oggi così diffuso nelle giovani generazioni musulmane da diventare una “materia prima”  pronta per l’impiego. Ciò non solo rende per loro relativamente molto facile il reclutamento di militanti e di fiancheggiatori, ma finisce per avere addirittura un valore operativo.

Entro certi limiti questi soggetti non hanno nemmeno bisogno di organizzare gli attentati. Sanno che se in determinate circostanze tirano nella misura voluta la leva dell’odio, e dell’incitamento a spargere sangue, qualcuno molto presto raccoglierà il loro appello. Il recente episodio del’arabo-americano che negli Stati Uniti ha fatto strage di marines in un centro di reclutamento di Chattanooga e poi in una vicina base militare è molto significativo. Stante tale situazione, e stante la facilità con cui negli Usa dei privati possono acquistare armi da guerra, siamo di fronte a un fenomeno che assomiglia quasi a una reazione chimica: si combinano degli elementi nella certezza poi confermata dai fatti che l’esito sarà quello previsto. In Europa è un po’ più complicato perché il commercio e la detenzione di armi da guerra sono illegali; ciononostante, come dimostrò la strage dei redattori di Charlie Hebdo, si può giungere agli stessi risultati. In una certa misura dunque cercare di individuare e di smantellare l’organizzazione terroristica, l’ “associazione a delinquere” è un’inutile impresa. Questo particolare terrorismo non ha bisogno di grande organizzazione. Presupponendo chissà quale complesso modello organizzativo, l’immagine dei “lupi solitari” o quella delle “cellule dormienti” non aiutano a capire. Più che tirando le leve di una catena di comando chi lo governa agisce lanciando segnali che è poi certo qualcuno raccoglierà. 

Tutto questo conferma che in fin dei conti è sul piano culturale che si può vincere o perdere la sfida. Un dramma storico innescato dall’attuale incapacità dell’islam di confrontarsi con il mondo contemporaneo, che tende perciò a scaricare verso l’esterno tensioni che non riesce a gestire al proprio interno. Come già in altre occasioni abbiamo accennato, nel breve periodo la reazione di polizia e la reazione militare sono di immediata necessità, ma nel lungo periodo il confronto culturale è quello decisivo. In tale prospettiva non si può far conto su quel nichilismo e relativismo di massa che sono oggi la cultura emergente nell’Occidente. Il recente disgelo delle relazioni tra l’Iran e le grandi potenze è stato ancora una volta spunto per toccare con mano la pochezza di questa cultura. Ancora una volta gli inviati recatisi a Teheran per raccontarci la “voglia di Occidente” dei giovani iraniani troppo spesso hanno fatto il consueto giro del sottilissimo strato di ragazzi e ragazze-bene dall’inglese fluente e dal portafoglio ben fornito raccontandoci del loro desiderio di discoteche, di musica rock, di blue jeans, di relazioni estemporanee, di unioni di fatto, di auto gran turismo e così via. Osserviamo per inciso che ancora una volta si è fatto l’errore di spacciare queste ristrette élites occidentalizzate al più basso livello come un campione di tutta la gioventù del Paese. Rispetto agli amici degli amici degli inviati dei nostri grandi giornali, la gran massa della gente in Iran, giovani e vecchi, vive infatti in un altro pianeta. 

Al di là di questo ci importa innanzitutto ribadire che per riconquistare la stima delle giovani generazioni musulmane occorre ben altro. Non sembra tuttavia che, almeno per il momento, la corrente cultura “laica” europea sia minimamente in grado di dare al riguardo delle risposte efficaci. Più che mai quindi sarebbe utile un impegno forte dei cristiani, e quindi della Chiesa. Nei confronti del mondo musulmano, tra gli altri, l’accento è oggi tutto o quasi sulla carità in senso lato, quindi sull’accoglienza. Abbiamo la buona sorte di sapere che cultura, carità e missione sono le tre dimensioni co-essenziali dell’esperienza cristiana, e quindi della sua testimonianza. Rimettiamoci dunque a prenderle sempre tutte e tre in considerazione. Farà bene a noi e ai musulmani che ci vedono e che ci incontrano. Ognuno di noi, da subito, può e deve fare ovviamente la propria parte. Occorrono però anche dei segnali alti e forti.