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Infanzia violata

La svolta della Svezia: stop ai metodi blocca-pubertà

I trattamenti per bloccare lo sviluppo degli adolescenti sono connessi a «conseguenze avverse estese e irreversibili come malattie cardiovascolari, osteoporosi, infertilità».

Gender Watch 08_05_2021

Proprio mentre in Italia la propaganda arcobaleno lavora a ritmi forzati per una celere approvazione del Ddl Zan, dal Nord Europa arriva una notizia che contraddice in pieno il dogma gender del «cambio di sesso» come via della felicità. La Svezia ha infatti deciso lo stop ai bloccanti della pubertà ai minori di 16 anni.

Si tratta di una svolta di peso, ufficializzata con un comunicato del Karolinska Hospital - ospedale universitario nella contea di Stoccolma - che boccia senza riserve l’idea che gli adolescenti con disforia di genere debbano essere sottoposti a procedure preliminari alla riassegnazione sessuale. Più precisamente, la struttura ha definito i trattamenti per bloccare lo sviluppo degli adolescenti affetti da disforia di genere come «controversi» e potenzialmente connessi a «conseguenze avverse estese e irreversibili come malattie cardiovascolari, osteoporosi, infertilità, aumento del rischio di cancro e trombosi». Per questo, la Svezia ora si smarca contemporaneamente sia dalle linee guida della Wpath (acronimo che sta per World Professional Association for Transgender Health) sia, ed è il primo Paese al mondo a farlo dopo averlo sposato, dal cosiddetto «protocollo olandese».

Quest’ultimo, per chi non lo sapesse, è un metodo messo da anni a punto in una clinica vicino ad Amsterdam - il VU Medical Center - che, per la cura della disforia di genere nei teenager, prevede anche la «sospensione della pubertà» già dopo i 12 anni. In realtà, la valenza del protocollo aveva già iniziato a scricchiolare lo scorso dicembre, quando l’Alta Corte inglese, esprimendosi sul caso di Keira Bell, ha stabilito che è assai dubbio che gli adolescenti possano comprendere appieno rischi a lungo termine e le conseguenze di certi trattamenti, esortando i medici a rivolgersi ad un giudice qualora nutrissero dubbi sulla somministrazione di ormoni e bloccanti ai giovani.

La svolta della Svezia è però ancora più pesante, dal momento che riguarda un intero Paese - peraltro noto come patria mondiale del progressismo - e perché arriva al culmine di perplessità che gli esperti sollevano da anni. Si pensi ad Angela Sämfjord, psichiatra infantile e adolescenziale al Sahlgrenska University Hospital, la quale, dal 2016, iniziò a seguire a livello clinico bambini e adolescenti interessati al «cambio di sesso», ma dopo due anni ha lasciato, per motivi di scienza e coscienza. «Come medico non ero pronta a correre il rischio», ha infatti spiegato la Sämfjord, «di causare danni a questi pazienti. Ne ho tratto quindi le conseguenze e mi sono dimessa».

Un’altra presa di posizione che aveva fatto rumore nel Paese nordico era poi stata quella di Christopher Gillberg, luminare e docente a Göteborg, il quale, in un intervento sul giornale Svenska Dagbladet, aveva definito il trattamento e la chirurgia sui minori nientemeno che «un grande esperimento»; un esperimento, aveva pure aggiunto Gillberg, che rischia di diventare uno dei peggiori scandali medici del Paese. Successivamente, altri esperti si erano dichiarati scettici sul «protocollo olandese».

Nel frattempo, a livello nazionale la curva dei giovani rinviati alle cliniche per il trattamento della disforia di genere, da un paio d’anni in flessione, ha continuato ad abbassarsi. Dimostrazione che in Svezia da tempo si era fatto strada un atteggiamento di estrema cautela. Con la nota del Karolinska Hospital però la prudenza si è tramutata in certezza: in omaggio al principio di precauzione, ai baby “trans” o presunti tali non va in alcun modo bloccata farmacologicamente la pubertà, non più.

Ora, di fronte alle decisioni dei giudici del Regno Unito e dei medici svedesi, non sarà il caso che anche in Italia e nell’intero Occidente si avvii un ripensamento sul transgenderismo? Che senso ha proseguire culturalmente ancor prima che clinicamente su una strada a cui i Paesi più laici del pianeta ora guardano con sospetto? Anziché dare copertura giuridica all’identità di genere come «percezione di sé», come intende fare il Ddl Zan, forse sarebbe il caso di prender esempio da quegli Stati che, prima di altri, hanno imboccato la strada dei «nuovi diritti» salvo poi, in quest’ultimo periodo, riscontrare che non è tutto oro quel che luccica. I festosi colori dell’arcobaleno celano parecchie ombre.