La Svizzera dà il "benvenuto" ai radicali islamici
Studi in lingua tedesca esaminano la presenza dell'islam in Svizzera e traggono la conclusione che sia "ben integrato". Unico problema: "l'islamofobia". Ma l'inchiesta di Saïda Keller-Messahli rivela una realtà molto meno rosea: l'islam elvetico si sta radicalizzando, con moschee sponsorizzate da Turchia e paesi del Golfo.
L’estate scorsa lo studio “Relgion Monitor” della Fondazione tedesca Bertelsmann esaminava le competenze linguistiche, il livello di istruzione, l'occupazione e l'impegno sociale dei musulmani in Svizzera.
“Sono generalmente ben integrati nella società svizzera”, è stata la sintetica conclusione con un ma di troppo: “il loro problema resta l'islamofobia”. Perché secondo il rapporto i musulmani in Svizzera si sentono minacciati, e sono stati ampiamente vittime di discriminazioni. Nello stesso agosto del 2017 veniva pubblicato un altro studio che però rivelava un dettaglio diverso della questione. La lente d'ingrandimento, infatti, metteva in risalto i “non musulmani” in Svizzera che si sentono “minacciati” dall’islam. Una percentuale, denunciava il rapporto, che è più che raddoppiata dal 2004: si è passati infatti dal 16% al 38%. Eppure sono mesi che il ministro degli Interni, Alain Berset, non fa che accusare i cittadini svizzeri di aver erroneamente sovrapposto l’islam al terrorismo islamico e che le loro paure sono più pericolose dei jihadisti stessi.
Nel frattempo Saïda Keller-Messahli, autrice di origine tunisina, e residente a Zurigo, ha trascorso gli ultimi anni ad analizzare l'islam istituzionale in Svizzera. Quel che ha finito poi con il raccontare nel libro Switzerland: An Islamist Hub, pubblicato in autunno, è che le moschee svizzere sono parte di una strategia internazionale per infiltrare un islam “discriminatorio” e “violento” in Svizzera e nel resto dell’Occidente. Il libro è una specie di guida sul campo dell'islam in Svizzera in cui viene denunciato senza mezzi termini chi sono i sostanziali proprietari delle moschee nel Paese così vicino all’Italia. Sono tutte collegate a varie reti basate qua e là nel mondo musulmano, molti degli imam sono stati addestrati in Egitto o in Arabia Saudita e molte delle moschee ricevono finanziamenti e prendono ordini da organizzazioni in Turchia. La Keller-Messahli disegna tutti i collegamenti, segue tutte le piste del denaro e svela tutti i testi spirituali, se è possibile definirli così, ma farciti al veleno. E fa pure in tempo a prescrivere la ricetta più urgente: controllate le moschee, tagliate i contanti stranieri ed espellete i predicatori del jihad.
Già, i contanti dai paesi esteri. A fine settembre la camera bassa del parlamento svizzero votava per proibire alle moschee di prendere denaro straniero e chiedeva che gli imam predicassero nella lingua locale. La legge si è arenata per mesi, complice anche il Consiglio federale - che costituisce il ramo esecutivo del governo - e che si è opposto alla misura perché giudicata colpevole di porre i musulmani “in un sospetto generale” e “alimentare le tesi degli estremisti”. Pochi giorni fa, però, la proposta di legge è tornata all'Assemblea federale per concludere l'iter parlamentare e lasciare al Consiglio degli Stati la possibilità, finalmente, di votare, ma solo perché venisse respinta definitivamente. In Svizzera ci hanno provato a seguire il modello austriaco per contrastare i finanziamenti stranieri e sottolineare la precedenza della legge del Paese rispetto a quella islamica della sharia, ma è stato tutto inutile.
Eppure il Paese, per quanto poco considerato dal punto di vista dell'immigrazione islamica, non se la passa benissimo. Si contano circa 250 moschee di cui le autorità sanno poco e niente, e, soprattutto di cui non conoscono i finanziatori. E ne sapranno ancor meno oggi che, respinta la legge, le autorità svizzere non hanno neanche più giurisdizione nel raccogliere dati sul finanziamento delle associazioni e delle moschee musulmane – fatta eccezione nei casi eccezionali in cui la sicurezza interna è palesemente minacciata. È come se deliberatamente il governo avesse scelto di recitare la parte del cieco. Come se poi si potesse declinare di ogni responsabilità.
Intanto sono diversi gli esperti che hanno segnalato, e continuano a farlo, le reti musulmane straniere al lavoro in Svizzera. Nel 2016, Reinhard Schulze, professore di studi islamici all'Università di Berna, raccontava per la prima volta delle consistenti donazioni che la Lega mondiale musulmana, con sede in Arabia Saudita, faceva confluire verso “moschee e organizzazioni aperte alla tradizione wahhabita in Svizzera”. Altri esperti di islam nel Paese hanno scritto abbondantemente, negli ultimi tempi, circa le “enormi somme di denaro dall'Arabia Saudita, dagli Emirati Arabi Uniti, dal Qatar, dal Kuwait e dalla Turchia che arrivano in Svizzera”, allo scopo di diffondere il pensiero salafita.
Ma non è tutto. Oltre all'influenza salafita, ci sono circa 35 moschee turche, tutte finanziate dalla nota Diyanet – la Direzione di Affari religiosi della Turchia. Per intenderci la Diyanet lo scorso anno ha pubblicato un rapporto in cui dichiara e rivendica la superiorità dell’islam al cristianesimo e al giudaismo e giudica “il dialogo interreligioso inaccettabile”. Con buona pace, dunque, della famosa integrazione. Il governo svizzero sembra non essere turbato da tutto ciò, né sembra aver intenzione di considerare i diritti dei cittadini svizzeri costretti a convivere con le conseguenze delle politiche mal pensate del governo.
Come se non fosse un dettaglio marginale, insomma, che, solo per fare un esempio, tre membri del consiglio centrale islamico della Svizzera siano andati a processo recentemente per “propaganda illegale ad al-Qaeda e organizzazioni connesse”. E se in due sono stati assolti, al terzo, Naim Cherni, è stata data una ulteriore pena detentiva di venti mesi – poi sospesa – per aver pubblicato un’intervista, condotta in Siria nel 2015, con il religioso saudita Abdullah al-Muhaysini che invitava i giovani musulmani in Europa ad unirsi al jihad.
Pare proprio che il governo svizzero non abbia intenzione di fermare la radicalizzazione, anzi quasi le sta dando il benvenuto.