La società della paura, figlia di una massa di individui soli
Diversamente dal passato, la paura che ci assale oggi è figlia di una società frammentata, dove non c’è una vera comunità con valori profondi, ma una massa. Il problema è la supremazia della sicurezza. Ma la soluzione c’è.
La società della paura è una società per modo di dire, perché generata da una paura molto singolare. Non è raro nella storia che la paura di una guerra in corso, o di una carestia imminente, o di un’altra calamità abbia per certi versi rafforzato i legami sociali e stretto la solidarietà tra gli uomini. Colpiti dalla stessa sciagura, chiamati ad affrontare una medesima necessità, le persone e le famiglie hanno cercato di rafforzare i reciproci legami, riconoscendoli come la più grande risorsa per reagire di fronte alla paura e non cedere ai suoi ricatti.
La paura che ci assale oggi è invece figlia di una società frammentata; non è un timore percepito e affrontato collettivamente, ma insicurezze dei singoli che diventano pubbliche. Scrive Frank Furedi: «Siccome le persone si estraniano dal loro mondo comune, la loro identità si lega sempre di più alla loro vita privata, che a sua volta personalizza il senso di insicurezza. Un sintomo di questo sviluppo è la tendenza delle ansie personali a divenire questioni pubbliche» (How Fear Works. Culture of Fears in the Twenty-First Century, Bloomsbury Continuum, 2019, p. 217).
Se osserviamo con attenzione, noteremo che le paure di massa da cui siamo afflitti differiscono dalle paure collettive proprio perché sono proiezione all’esterno di un profondo senso di insicurezza di un individuo solo. La massa è infatti un agglomerato di individui che non sono in reale comunicazione tra loro, che non condividono una cultura e dei valori comuni, che non sono amalgamati da una fede religiosa e da valori profondi. Molti chicchi di grano non sono una pagnotta, molti individui non sono una comunità.
L’ansia individuale massificata porta ad una sempre maggiore richiesta di interventi con l’obiettivo di costruire un mondo libero da rischi, malattie, infortuni, guerre, carestie, crisi e possibilmente anche la morte. Il bombardamento comunicativo, che abbiamo descritto nello scorso articolo, mira a generare nell’individuo uno stato perenne di ansia e allerta, che, in un mondo ormai privo di comunità degne di questo nome, è in grado di far sì che siano proprio gli individui a desiderare, attendere, richiedere e accettare misure semplicemente folli. E ad aggredire in tutti i modi possibili chiunque venga di volta in volta additato come il nemico dell’incolumità pubblica.
Il caso più eclatante è il virologo-star Roberto Burioni, che aveva apertamente ammesso di essere ipocondriaco, prima che lo si capisse chiaramente all’epoca della recente pandemia: «Non riesco nemmeno a pensare alla morte. Ne sono terrorizzato. Se qualcuno, a casa o fuori, comincia a parlarne, io scappo. Letteralmente dico (…). Così come non fatemi nemmeno vedere gli aghi: ogni volta che c’è da fare il vaccino antinfluenzale io sono tentato di scappare». E poi l’ammissione di una vera e propria psicosi: «Qualche volta mi metto a dieta. Perdo cinque o sei chili. Ma poi, vedendomi smagrito, comincio a tremare: “e se avrò qualche brutto male?”, dico a me stesso. Quindi ricomincio a mangiare per riprendere i chili persi e, in tal modo, tranquillizzarmi». Non si tratta di dare un po’ di spazio al gossip. La società della paura genera persone a sua immagine, le quali poi risultano i più fidati soggetti per occupare posti di responsabilità o di visibilità. L’ipocondriaco è quello che, in ultima analisi, ha meno possibilità di tradire la causa: la sua ansia continua gli fa percepire la realtà come un luogo pieno di rischi, ossia conferma il presupposto fondamentale della società della paura.
La ricerca della sicurezza diventa il nuovo feticcio cui sacrificare tutto: «l’importanza che i sostenitori di una società del rischio-zero attribuiscono alla sicurezza significa che tutti gli altri interessi e principi devono essere subordinati a questo fine» (p. 225). Riservatezza, libertà, valori etici, verità religiose, affetti familiari: tutto può e deve essere sacrificato per la sicurezza pubblica. La sicurezza è il nuovo nome del bene.
Furedi afferma con ragione che il terreno su cui può crescere la paura, così come l’abbiamo descritta, è quello di una società frammentata, individualizzata. Cioè una società che non è una comunità, che non è unificata da un consenso di base sul senso e l’orientamento della vita umana. Questo vuoto è la condizione che porta gli uomini a non avere più punti di riferimento stabili, solidi, irrinunciabili. La paura che unisce è quella che minaccia i punti forti di una comunità: la fede, la famiglia, la nazione, la libertà, etc. La paura che disgrega presuppone invece che tutto questo non sia più condiviso, che ci sia una sostanziale confusione sulle cose che contano davvero; così, di volta in volta, ad ogni nuovo allarme, percepito come minaccia dell’individuo, tutto può essere sacrificato, perché non c’è più nulla che sia compreso come non-sacrificabile. E va da sé che, a determinare quale sia il rischio, quali le sue proiezioni nell’immediato futuro, con quali armi e strategie combatterlo, possa essere solo quell’unica realtà alla quale abbiamo deciso di attribuire il crisma dell’infallibilità, ossia la Scienza.
Si potrà obiettare che proprio gli ultimi allarmi abbiano invece giocato la carta comunitaria; hanno cioè spinto sul sentimento nazionale, sulla solidarietà, sulla capacità di sacrificarsi per i più fragili. Ma questi “valori” hanno dimostrato di avere meno spessore di una mano di vernice, e la stessa capacità di sacrificarsi per il prossimo di chi si mette la coscienza a posto mandando un’offerta di un euro tramite sms a “save qualcosa”. Salvo poi lasciar morire le persone concrete quando vengono percepite come portatrici di rischio.
Scrive Furedi: «L’uso politico della paura è sorretto da un terreno culturale, nel quale evitare il rischio e agire con cautela è equiparato ad un comportamento responsabile. La supremazia della sicurezza come valore autonomo che batte tutti gli altri viene difficilmente contestato. I critici delle politiche della paura sono spesso inconsapevoli o ignorano il fondamento che sorregge l’obiettivo della loro ostilità» (p. 259). È questo il punto più debole della giusta e lodevole reazione in atto. Se ce ne rendessimo conto, potremmo iniziare a riconoscere che il Cristianesimo vero ‒ che non ha nulla a che vedere con quel simulacro che è battuto in ritirata durante la pandemia ‒ non appartiene al passato, ma alla lotta presente e alla solidità del futuro.
La società della paura e il miraggio del “rischio zero”
Dalle influenze al clima, fino alle attività più normali, ormai motivo d’ansia. Nella società della paura c’è una parola chiave: rischio. L’utopia del “rischio zero” crea una vita d’inferno e serve come strumento di controllo.