La società della paura e il miraggio del “rischio zero”
Dalle influenze al clima, fino alle attività più normali, ormai motivo d’ansia. Nella società della paura c’è una parola chiave: rischio. L’utopia del “rischio zero” crea una vita d’inferno e serve come strumento di controllo.
L’“esperienza” mediatica si sovrappone a quella reale con una forza e una ripetitività tali da distogliere le persone dal normale ricorso alla memoria, propria ed altrui, e dalla lettura dei dati che la realtà ci restituisce, per valutare le situazioni che vivono. Ricordate la terribile “grande influenza”, detta anche “la spagnola”, che falciò la vita di numerose persone nel 1918-20, soprattutto nei giovani adulti? Tre ‒ in alcuni casi quattro ‒ ondate, in una estensione temporale di circa due anni e mezzo e poi la sua sparizione. Dati che corrispondono a quelli della recente pandemia, con la differenza che non venne inoculato nessun vaccino. Nessun vaccino: eppure la spagnola se ne andò. Ma ormai è un mantra che siano stati i vaccini a salvarci dal Sars Cov-2, imposti con la falsità, il terrore quotidiano e l’estorsione.
Fa caldo? Decisamente sì. Eppure, se solo ponessimo mente locale, tutti ricorderemmo estati ben più torride di quella in corso (almeno fino ad ora). Controllate le sorgive ‒ posto che ci siano ancora persone che sanno dove si trovano ‒ e vedrete che in gran parte emettono un quantitativo d’acqua maggiore rispetto alla metà di luglio degli anni passati. Eppure, niente: c’è Caronte, ogni giorno caldo record e picchi più di quanti ve ne siano sulle Dolomiti, allarme globale, tempeste di calore. Fino a qualche mese prima avevamo altre “ondate”: non rovesci di pioggia e temporali, ma bombe d’acqua. Bombe! Una guerra. Linguaggio che ritroveremo con le prime piogge d’autunno.
È da tempo che anche attività normali siano ormai motivo d’ansia. Pensiamo ai bambini che per andare in bicicletta ‒ in pianura, sulle piste ciclabili ‒ si mettono il caschetto, le ginocchiere e le gomitiere. Non si sa mai. O alle nuove auto: per ogni cosa che possa essere ricondotta a un colpo di sonno, partono suoni, luci, vibrazione del volante. Meglio stare dalla parte dei bottoni. O a un’escursione in montagna ‒ un’escursione, mica la parete nord dell’Aiguille Blanche ‒, per la quale sembra divenuto moralmente vincolante avere un Gps per non perdersi e uno Smart Watch per il rilevamento delle cadute; giusto perché la maledizione fantozziana è sempre in agguato.
Questi esempi, che potrebbero essere decuplicati, sono la risposta alla parola chiave di una società della paura: il rischio. Dal risk assessment, al risk management, al dogma della sicurezza sul lavoro, la sicurezza stradale, etc. Nessuno nega che nella vita si corrano dei rischi, persino nelle attività ordinarie. Lo spostamento significativo sta però in due fattori: la ricerca metodica dei fattori di rischio e l’imperativo di ridurre l’incisività di questi fattori sulla vita personale, di una nazione, o sull’attività di un’azienda. È il famoso miraggio del “rischio zero”, che funziona come un asintoto: mai realmente raggiungibile, se non dopo la nostra morte, eppure capace di far tendere verso di sé ogni iniziativa.
L’utopia del “rischio zero” implica una sistematica caccia senza quartiere agli elementi rischiosi, che dunque non possono che aumentare esponenzialmente e comparire anche laddove mai l’avremmo immaginato; e ovviamente la necessità di controllare capillarmente la realtà, proprio nell’intento di “ridurre il rischio”. Il rischio non è più una semplice probabilità, ma qualcosa di realmente pericoloso che dev’essere eliminato. Il risultato non è semplicemente una vita d’inferno, ma l’incremento sistematico della percezione del rischio. E dunque la paura.
Come ha spiegato il sociologo britannico Frank Furedi nel suo volume How Fear Works. Culture of Fear in the Twenty-First Century (Bloomsbury Continuum, 2019), «l’emergere di ciò che ho precedentemente caratterizzato come consapevolezza del rischio ‒ la tendenza a percepire i diversi aspetti della vita attraverso il prisma del pericolo e della perdita ‒ evidenzia l’influenza della prospettiva della paura sulla vita delle persone» (p. 156). E la prospettiva della paura «incoraggia la società non solo alla paura, ma a temere il peggio» (p. 158).
Un altro elemento chiave della società della paura sono le time bombs, le bombe a orologeria. «Sondaggi e relazioni allarmistiche ‒ spiega Furedi ‒ dichiarano costantemente che un particolare problema è verosimilmente destinato a peggiorare e che ci troviamo di fronte ad un futuro minaccioso, a meno che non prendiamo subito provvedimenti decisivi» (p. 72). La narrativa delle time bombs è insostituibile, in quanto è l’unica che permette di sfruttare la paura per operare cambiamenti. La paura semplicemente percepita, anche in modo forte, ha l’inconveniente di poter generare una risposta paralizzante: un inconveniente non da poco da parte di chi vuole far presto cassa utilizzando il terrore. Il futuro minaccioso dev’essere presentato come qualcosa di assolutamente certo, a meno che non si intervenga presto e in modo radicale. In altre parole, il futuro dev’essere percepito come già presente per diventare la causa di un cambiamento presente. E questo è reso possibile dalla strategia della corsa-contro-il-tempo (race-against-time).
Se tuo figlio avrà ancora un domani dipende dalla tua scelta di prendere oggi un’auto elettrica: ogni giorno di rinvio potrebbe essere troppo tardi. La riduzione del cancro al pomone, di cui magari ha sofferto un tuo caro, dipende dall’abbandono della combustione fossile; e, ovviamente, è già tardi. La paura “utile” è dunque la paura performativa, la paura che spinge al cambiamento. Ed è per questo che diffondere la paura a tutti i livelli comunicativi non è più un reato, ma persino un dovere: «Spaventare il pubblico è equiparato ad un atto di responsabilità civica. Per esempio, il politologo americano afferma che l’ansia contribuisce a rendere gli individui dei cittadini più informati». E per quale ragione? «Perché gli stimoli emotivi hanno fatto sì che cogliessero l’importanza dei problemi in tempi di incertezza» (p. 99). La paura accende l’intelligenza.
Senza la paura i problemi resterebbero problemi, non tragedie e, soprattutto, non spingerebbero ad un’azione collettiva, repentina, condivisa. Una tecnica esplosa con la pandemia, che con il “fine buono” di aiutare le persone a prendere non si sa quale consapevolezza, fa sì che non si abbia alcuno scrupolo di deformare la realtà. «Stephen Schneider, un climatologo, ha giustificato la distorsione dell’evidenza supportando la sua causa nei seguenti termini: “Siccome non siamo solo scienziati, ma anche esseri umani… dobbiamo… catturare l’immaginario pubblico”. E ha aggiunto: “Dobbiamo offrire scenari spaventosi, fare affermazioni semplificate drammatiche, e fare poco riferimento ad eventuali dubbi che abbiamo”» (pp. 99-100). Insomma, anche noi abbiamo un cuore: vi vogliamo bene e per questo faremmo qualsiasi cosa.
Che cosa comporti la società della paura è piuttosto intuibile; ma avremo modo di comprenderlo meglio.