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IL LIBRO

La sequela di Cristo lungo la via dolorosa

Le meditazioni di sette sacerdoti sul cammino di Gesù verso il Calvario: le raccoglie il libro fresco di stampa “Via Crucis. Il dono più prezioso”. Un modo per riflettere sulle grazie che il Figlio di Dio ci ha donato attraverso la sua Passione e per capire come imitarlo, abbracciando la nostra croce.

Ecclesia 15_03_2022

«Davanti al dolore si rimane in silenzio, in ginocchio, e si prega. Gesù non è venuto a spiegarlo, a darci risposte e spiegazioni. Però ha preso su di sé tutto il dolore, lo ha portato per noi ed è vicino ai suoi figli che soffrono». Così scrive Costanza Miriano nella prefazione alla recente Via Crucis. Il dono più prezioso (Shalom, 2022), che raccoglie le profonde meditazioni spirituali di sette sacerdoti sul cammino di Gesù lungo la via dolorosa della sua Passione. Si tratta di «una miniera di riflessioni inattese, un aiuto formidabile per rendere il nostro cuore più vicino a quello di Gesù, un invito a fargli compagnia nel momento in cui è più solo e sofferente». Per dirla con sant’Alfonso Maria de’ Liguori: «Questa devozione deve praticarsi con tutta la tenerezza, pensando che stiamo accompagnando il Salvatore con le nostre lacrime per compatirlo e ringraziarlo».

Meditando su Gesù nell’Orto degli Ulivi, don Pierangelo Pedretti sottolinea che «Dio vuole “fare Quaresima” con noi, vuole venire a “ricreare” il nostro giardino deformato e rovinato dal peccato; comportandosi come il chicco di grano che, deposto nella terra, muore e, morendo, produce frutto ridonando vita». Di qui egli invita a domandare al Signore nella preghiera «di aiutarci a strappare da noi la stoltezza delle ideologie, la superbia delle nostre culture e dei nostri diritti; dei nostri progressi, delle nostre conquiste, delle nostre rivalse verso le persone», dal momento che «Gesù abbraccia la croce per noi, al posto nostro, in modo tale che possiamo imparare da lui, ricevendo da lui la capacità di abbracciare la nostra croce senza esserne distrutti, senza lasciarci travolgere da quel dolore sordo che potrebbe avvelenarci la vita». A ciascuno è dato però il compito di individuare la propria croce, nella consapevolezza che essa «è il segreto laccio d’amore attraverso il quale il Signore attira a sé, per poi tutto compensare, tutto riempire, tutto saziare».

Sulla prima caduta di Gesù lungo la via dolorosa, riprendendo la metafora della partita di calcio, don Antonello Iapicca, sottolinea l’importanza di esser consapevoli che «l’avversario contro cui scendiamo in campo è di gran lunga più forte e astuto di noi, ma non ha Gesù Cristo in campo che sa fare gol anche all’ultimo minuto. Perché il Signore sia il nostro fuoriclasse che vince la partita, però, dobbiamo stare nella sua squadra. È a questo punto che entra in gioco l’opera della grazia, che va accolta, conquistata e difesa». D’altra parte, «il nostro Dio, per insegnarci a cadere, è caduto lui stesso: Gesù si è mischiato con quella polvere che siamo noi». Dunque bisogna «imparare a cadere bene», senza cioè scandalizzarsi per le proprie cadute, fiduciosi dell’amore misericordioso del Padre cui riorientare la propria vita.

Sul sostegno offertogli lungo la via della croce, don Alessio Geretti fa notare che Gesù, «che non avrebbe bisogno di nulla, vuole essere aiutato da noi, anche se conosce i nostri limiti, gli stessi di quel Simone di Cirene che si ritrova a portare il patibolo contro voglia, ma poi lo aiuta con generosità. E Gesù non sta a guardare con che animo iniziamo a dargli una mano; ha la delicatezza di considerarci così preziosi e importanti da chiederci se vogliamo andare in suo soccorso». Il fatto che il Cireneo tornasse dal lavoro dei campi è un segnale dei «diversi momenti e diversi luoghi in cui Egli ci aspetta “al varco” per dirci e darci qualcosa». Lo stesso sacerdote sottolinea, invece, rispetto al delicato gesto della Veronica, che esso allude alle «tante persone che sono state capaci di amare Dio e il prossimo in modo indimenticabile», cioè ricorda «la nostra missione: far tornare a brillare il volto dell’uomo per rendere, così, più visibile il volto di Dio», soprattutto nei momenti più bui della storia.

Nella meditazione sulla seconda caduta, don Vincent Nagle evidenzia che «Gesù si alza, ritrova la forza che credeva di aver esaurito, continua a bere il calice della salvezza, per dire che è con noi nella salita e che non ci abbandona mai».

Eppure, a un amore così grande del Creatore per la sua creatura, l’uomo può sottrarsi. È proprio il pensiero che per molti tale salita lungo il Calvario sarebbe stata inutile a far cadere Gesù una terza volta, come rileva don Roberto De Meo, sottolineando che «la grande sofferenza del Signore viene dalla libertà dell’uomo che dice “no”». È il nostro “no” al suo amore il patibolo che grava sulle spalle di Cristo. Di qui Egli è spogliato delle vesti, «perché l’uomo peccatore è spogliato di tutto; l’uomo è nudo per il peccato; il peccato non porta nessuna ricchezza, non porta nulla nella vita dell’uomo».

Cristo viene quindi condotto su una collina a ovest di Gerusalemme che nasconde il profilo di un cranio e sotto la quale, secondo un’antica tradizione, vi era lo stesso teschio di Adamo, come molte rappresentazioni artistiche evidenziano. Rifiutando l’anestetico dell’aceto mescolato con fiele, «Gesù ci mostra che si può attraversare la sofferenza senza ricorrere a questa forma di fuga; vuole esserci pienamente nel culmine della sua missione», afferma fra Roberto Pasolini, laddove la società contemporanea cerca in ogni modo di evitare con ogni mezzo il dolore. L’acme più tragico cui giunge tale logica è la richiesta di eutanasia. Infatti «davanti alla propria croce viene in mente il nostro pensiero autentico: “Salva te stesso”» che rende «vittime di un egoismo che uccide in noi l’immagine di Dio», perché fa guardare solo i propri interessi. Dunque «la croce ci fa terribilmente paura, perché prima di essere un modo di morire è un modo di vivere». Relativamente al silenzio del Padre dinanzi al grido di abbandono del Figlio, il frate milanese commenta che «lo sguardo così austero eppure così dolce del Padre talvolta non accarezza i suoi figli solo perché sa che ce la stanno facendo».

Relativamente alla deposizione di Cristo nel sepolcro, padre Maurizio Botta trae spunto dal quadro celeberrimo di Caravaggio, nel quale Nicodemo non solo guarda lo spettatore ma lo stesso Cristo presente nell’Eucarestia quando il sacerdote eleva l’ostia durante la consacrazione, dato che era collocato originariamente come pala d’altare proprio nella Chiesa Nuova a Roma. In sostanza, «l’artista sta facendo dire a Nicodemo: “Vi rendete conto che sta accadendo questo?” e Gesù, deposto dalla croce, indicando la pietra angolare, ci dice: “Voi che siete limo, voi che siete fango, potete trovare consistenza solo in me”». Nella tela di Merisi, infatti, il corpo di Gesù deposto tocca con il dito proprio «quella pietra angolare su cui costruire la vita» che è Cristo stesso.

«Io sì amo la croce sola, la amo perché la vedo sempre alle spalle di Gesù», diceva Padre Pio. Con lo stesso cuore grato siamo chiamati a entrare nel mistero del Sabato Santo, interrogandoci nel silenzio su «Cosa sarebbe la mia vita senza Gesù?» - come ci esorta a fare il sacerdote oratoriano nell’ultima tappa della Via Crucis - ed elevando al Padre un sentito ringraziamento per il dono immenso della salvezza e la grazia di «imparare ad amare come ama Dio».