La scommessa di Pascal è ancora attuale
È più ragionevole scommettere su Dio che non sulla sua inesistenza. Concetto ripreso dall'allora cardinale Ratzinger nella storica conferenza di Subiaco, in cui invitava tutti a vivere come se Dio esistesse.
Il pensée 233 è di certo tra i più famosi di quelli lasciati postumi da Blaise Pascal. Allo scettico libertino arenato nel buco nero del suo agnosticismo – «se c'è un Dio, è infinitamente incomprensibile [...], non ha nessun rapporto con noi. Siamo, dunque, incapaci di conoscere che cos'è, né se esista» - Pascal propone la nota scommessa: poiché non si può non scommettere, e poiché le probabilità di vittoria sono uguali a quelle di perdita, ha decisamente più senso rischiare di perdere il finito per guadagnare l’infinito, che non il contrario. È insomma più ragionevole scommettere su Dio che non sulla sua inesistenza.
La scommessa di Pascal è sì una proposta, una sfida, ma anche una mano tesa al libertino che continua a mettere davanti la giustificazione di essere fatto «in modo tale che non posso credere». A lui Pascal domanda di riconoscere almeno che l’«impotenza di credere proviene dalle vostre passioni, dacché la ragione vi ci porta, e tuttavia non potete credere. Adoperatevi, dunque, a convincervi non già con l'aumento delle prove di Dio, bensì mediante la diminuzione delle vostre passioni». Da qui la proposta concreta si seguire «il metodo con cui hanno cominciato» altri increduli, divenuti credenti, ossia «facendo cioè ogni cosa come se credessero». Veluti si Deus daretur.
Nella proposta di Pascal la natura umana è presente in tutto il suo realismo: l’intelletto è sì l’occhio della volontà, ma nel contempo è la volontà ad orientare il proprio “telescopio”. Se dunque rimane vero che nihil volitum nisi praecognitum, perché non si può volere e amare ciò che non si conosce affatto, rimane altrettanto vero che nihil praecognitum nisi volitum: devo voler conoscere per conoscere; devo voler indirizzare l’occhio del mio intelletto in una certa direzione per poter conoscere per davvero cosa c’è in quella direzione. E’ per questa ragione che la volontà umana ha bisogno di uno scossone: deve comprendere cosa sta rischiando di perdere, continuando a rimanere nella propria indolenza sul problema di Dio.
La scommessa e la provocazione di Pascal sono stati fatti propri, in tempi recenti, dall’allora Cardinale Joseph Ratzinger, nella storica conferenza da lui tenuta a Subiaco, poco prima di essere chiamato a diventare il 265° papa della Chiesa cattolica. La sua proposta del rovesciamento dell’assioma illuministico che voleva costruire un’etica neutra, come se Dio non esistesse, assume sempre di più il volto di un dovere, alla luce del totalitarismo tecno-scientistico nel quale siamo sprofondati e che ormai impone come quanto di più normale il sacrificio dell’uomo a quanto la tecnica può e vuole.
È piuttosto chiaro che il problema non è la ricerca scientifica, quanto piuttosto la rivendicazione che la ragione ridotta a conoscenza scientifica debba essere considerata l’unica capace di universalità; quella ragione in verità mutilata e perciò inadeguata che riposa nelle filosofie «positivistiche, e perciò antimetafisiche, tanto che, alla fine, Dio non può avere in esse alcun posto», spiegava Ratzinger. Filosofie che sono basate su una scelta arbitraria di «autolimitazione della ragione positiva, che è adeguata nell’ambito tecnico, ma che, laddove viene generalizzata, comporta invece una mutilazione dell’uomo». Ratzinger aveva visto con chiarezza che questa prospettiva non avrebbe affratellato gli uomini, non avrebbe portato ad un progresso dell’umanità, in quanto “umana”, quanto invece a «un fare a meno dell’uomo».
Marcello Pera, nella sua introduzione al libro L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, portava alla luce il nocciolo del problema: se la scienza non sente «il vincolo della religione della Scrittura [...] per la tesi della separazione la scienza è libera e deve procedere per proprio conto [...]. Questa conseguenza diventa più acuta quando la scienza produce la tecnica. La scienza sa, la tecnica può. Ma se la scienza è libera di sapere, allora anche la tecnica è libera di potere». Un endorsement per Bellarmino, nella contesa con Galilei. Il laico Pera aveva perciò accolto di buon grado la provocazione di Ratzinger, perché aveva riconosciuto l’estrema pericolosità di una scienza, che in nome della rivendicazione della propria autonomia, non riconosce più quel limite che gli proviene da una sfera “altra”, incapace, secondo i parametri che la scienza stessa ha imposto, di essere ritenuta capace di verità.
Robert Spaemann, nel suo saggio La diceria immortale, si era posto nella scia della riflessione di Ratzinger-Pera, offrendo un’analisi impietosa di cosa accade se si consideri vera quella «vecchia diceria che non riesce a mettere a tacere», ossia «che esista un essere che nella nostra lingua si chiama Dio».
Solo quando parliamo degli uomini si supera il determinismo; solo se «consideriamo soggetti liberi di agire, allora ha senso parlare di un “avrebbe potuto” alternativo e dire con riferimento a determinati risultati dell’agire che noi avremmo potuto fare anche qualcos’altro». Analogamente, se il mondo non viene considerato come proveniente da un atto libero, allora la sua comprensione si può esaurire in un’ottica deterministica e nella medesima ottica la tecnica plasmerà “infallibilmente” il mondo.
«Il pensiero che il mondo potrebbe essere altro da quello che è, anzi che persino le leggi della natura siano contingenti, poteva scaturire soltanto sullo sfondo del pensiero di un mondo originato da una libera scelta». Che il mondo sia creato da Dio significa ordine, ma nel contempo superamento del determinismo; e non soltanto perché all’interno del mondo Dio ha creato “cause libere”, come gli uomini e gli Angeli; ma anche perché Dio non è l’orologiaio caro ad un certo Illuminismo, e che molti teologi moderni pare abbiano ancora più a cuore, al punto da rifiutare l’idea che Dio possa intervenire nel mondo. Da qui, il fatto che vadano su tutte le furie allorché si preghi Dio che conceda la pioggia o il bel tempo.
Spaemann indica che c’è anche «una conseguenza morale derivante dal credere in Dio. Se Dio c’è, gli uomini devono fare ciò che Dio vuole che essi vogliano, e non devono cercare di svolgere il ruolo di Dio quasi da padroni di ciò che accade». C’è un Dio e non sono io: è sicuramente un buon punto di partenza. Era stato Jean-Paul Sartre a cogliere che la posizione atea porta ad un’ “etica della responsabilità”, in forza della quale bisogna essere pronti «a commettere qualsiasi crimine se è per il bene dell’umanità». Chiamasi consequenzialismo, il nuovo assoluto al quale vanno sacrificati gli assoluti morali. Se invece Dio c’è, allora rimane fermo che il primum etico è non commettere il male, a prescindere dalle intenzioni e dalle conseguenze – che in medicina si traduceva (tempo passato) con il principio primum non nocere. Nessun crimine, nessun peccato, nessun male può essere compiuto per il “bene” dell’umanità.
«”Se Dio non esiste tutto è permesso”, diceva Dostoevskij. “Secondo le circostanze, e premessa la buona intenzione”, aggiunge il conseguenzialista. “A noi tutto è permesso”, diceva Lenin nella convinzione di sapere ciò che era meglio per tutti, e che non c’è nessun Dio che lo sappia. Il conseguenzialismo è rottura con le basi di una millenaria educazione umana. Ed è totalitario, poiché eleva a signore delle coscienze di coloro che non lo sanno, chi crede di sapere ciò che è meglio di tutti». Sarà per questo che è così di moda tra gli ecclesiastici.
Mai come oggi urge tornare a Dio. Urge vivere veluti si Deus daretur. Questo significa piegare la nobiltà della fede ad un calcolo utilitario? Avremo modo di parlarne tra qualche anno. Intanto, voi tutti che state resistendo al nuovo totalitarismo tecno-scientifico, raccogliete la sfida. Per favore.