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ECONOMIA MONDIALE

La realtà rovesciata di Davos

Come ogni anno il World Economic Forum, che si svolge in questi giorni in Svizzera, metterà sotto accusa il capitalismo e l'Occidente per tutto ciò che non va nel mondo. E il solito rapporto Oxfam ha già puntato l'indice contro le disparità e le disuguaglianze sociali. Ma dimenticando le responsabilità nel sottosviluppo delle culture e della corruzione delle elites locali.

Editoriali 21_01_2020

L’Occidente cristiano, il capitalismo che è il suo modo di produzione, le libertà individuali che procedono dal valore riconosciuto alla vita umana, conferiscono dignità e libertà alle donne come nessuna altra civiltà. Anche la cura della Terra raggiunge i maggiori risultati là dove si apprezza la bellezza del Creato affidato all’uomo perché ne raccolga i frutti e li moltiplichi. 

Ma nei prossimi giorni si dirà tutt’altro a Davos, dove dal 21 al 24 gennaio si  svolge il Word Economic Forum 2020, la consueta fiera delle buone intenzioni e delle grandi denunce: raccomandate le prime e rivolte le seconde ogni anno puntualmente al capitalismo, in quanto unico e solo responsabile delle ingiustizie patite e degli incombenti pericoli che minacciano l’umanità, e dal quale quest’anno si esige un “cambiamento epocale di paradigma” affinché si possa andare finalmente “verso un futuro sostenibile e coeso”.

Altrettanto puntualmente, in vista dell’evento, il 20 gennaio Oxfam, nota organizzazione no profit contro la povertà, ha pubblicato un rapporto intitolato “Time to care” nel quale denuncia ancora una volta le crescenti disuguaglianze economiche del pianeta. 4,6 miliardi di persone, la parte più povera della popolazione globale, dispongono – sostiene Oxfam – di meno denaro delle 2.153 persone più ricche che costituiscono il vertice della piramide economica: “La nostra economia distorta sta aumentando il divario tra ricchi e poveri. Fa sì che una piccola elite di persone accumuli grandi ricchezze a spese delle centinaia di milioni di persone, spesso donne, che sopravvivono a stento e alle quali sono negati i diritti fondamentali”.
Oxfam spiega che la disparità di ricchezza, la disuguaglianza economica sono fuori controllo e che questa grande ingiustizia deriva da un sistema economico distorto e sessista che attribuisce più valore alla ricchezza di pochi privilegiati, per lo più maschi, che ai miliardi di ore impiegate nel lavoro più essenziale: quello di cura non pagato o sottopagato svolto dalle donne. Ogni anno – si legge nel rapporto – il lavoro di cura delle donne, di 15 anni e oltre, apporta all’economia mondiale almeno 10,8 trilioni di dollari, tre volte tanto l’industria tecnologica. Ma le ricchezze dei 22 uomini più ricchi equivalgono a quelle di tutte le donne africane.

Tutto ciò deve cambiare, conclude Oxfam: i governi devono agire ora per creare un’economia umana che sia femminista e dia valore a ciò che veramente conta per la società invece di continuare a perseguire profitto e ricchezza. Per farlo basta introdurre nuove tasse. Secondo i relatori del rapporto “basterebbe”, ad esempio, aumentare dello 0,5% le tasse imposte all’1% più ricco della popolazione per dieci anni.

Durante la conferenza stampa per la presentazione di “Time to care”, Amitabh Behar, amministratore delegato di Oxfam India, ha portato a esempio la vita di Buchu Devi, una donna indiana che ogni giorno impiega 16-17 ore ad attingere acqua percorrendo tre chilometri, cucinare, preparare i figli per andare a scuola e svolgere un lavoro mal pagato. Come lei vivono milioni di donne – ha commentato – mentre intanto dei miliardari, con i loro costosi stili dei vita, arrivano a Davos sui loro jet privati.

Questo dirà a Davos Amitabh Behar e tutti applaudiranno anche se tutti sanno che quelle donne non sono povere per colpa dei più ricchi del pianeta, che anzi contribuiscono a creare posti di lavoro e redditi, ma per le sconsiderate politiche economiche di governi corrotti, incapaci e irresponsabili; e sono più povere degli uomini per effetto di istituzioni tradizionali che le discriminano, ne limitano scelte e opportunità, le rendono socialmente inferiori e dipendenti dagli uomini.  

È dal 2006 che il Forum di Davos, alla 50esima edizione, misura le disparità di genere e il rapporto di quest’anno rivela che al ritmo attuale ci vorranno 257 anni perché si colmi il divario economico di genere: la parità piena si realizzerà non prima del 2277. Il Rapporto dell’anno scorso stimava che sarebbero bastati 202 anni. I 50 in più calcolati forse si attribuiscono al riscaldamento globale antropico. Da mesi Nazioni Unite e altri organismi infatti avvertono che il cambiamento climatico colpisce soprattutto le donne. Di recente The New Humanitarian, l’agenzia di stampa fondata dall’Onu e diventata organizzazione no profit, ha pubblicato un articolo firmato dai funzionari di due agenzie Onu, l’Ocha (Ufficio di coordinamento degli affari umanitari), e l’Unfpa (Fondo per la popolazione), che spiega come il cambiamento climatico colpisca le donne in maniera spropositata in termini sia di un più grave deterioramento delle condizioni materiali di vita che di diritti umani violati ed erosi.

Gli autori citano il caso dei paesi dell’Africa australe dove – dicono – il cambiamento climatico ha fatto aumentare il numero delle bambine e della ragazzine  che contraggono l’Aids e di quelle costrette a matrimoni precoci. La spiegazione secondo loro è la crescente povertà, a causa della quale… più famiglie considerano le figlie un peso di cui liberarsi il prima possibile maritandole, a maggior ragione se per tradizione possono esigere il prezzo della sposa. E più prostitute accettano di avere rapporti sessuali non protetti perché i clienti sono disposti a pagare di più se non devono usare preservativi.   

Così tutti applaudiranno anche Greta Thunberg, uno dei dieci “leader” sotto i 20 anni invitati, perché un tema principale del Forum è ovviamente il cambiamento climatico. L’applaudiranno anche se l’ipotesi del global warming antropico non ha provata rilevanza scientifica e, se anche fosse, sapendo, perché non è possibile ignorarlo, che a condannare le ragazzine africane sono non il clima più caldo, ma una società ancora vincolata a un modo di produzione arcaico, il persistere di istituzioni tradizionali che ne contemplano lo sfruttamento e il sacrificio.