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IL CASO FONTANA

La razza non esiste, ricordatelo anche al Pd

La questione delle “razze umane” è un’imbecillità perché le “razze umane” non esistono. Ma la Sinistra dovrebbe indignarsi anche con la Pd Patrizia Prestipino. E bisognerebbe intentare un processo culturale serio all’evoluzionismo oltre denunciare la matrice illuminista dell’idea balorda delle “razze” superiori e inferiori. Che provocò il primo genocidio della storia: quello dei cristiani della Vandea. 

Attualità 19_01_2018

La «razza bianca» da difendere di cui ha parlato Attilio Fontana, candidato presidente della Regione Lombardia per il Centrodestra, in una intervista a Radio Padania il 14 gennaio, è un imbecillità assoluta esattamente come un’imbecillità assoluta è la «nostra razza» (italiana) da sostenere di cui ha parlato in luglio Patrizia Prestipino, membro della direzione nazionale del Partito Democratico, responsabile del dipartimento del PD per la difesa degli animali, ex assessore regionale e insegnante di Lettere nei licei, in una intervista a Radio Cusano Campus. Diverso è solo il putiferio scatenato da queste due identiche imbecillità: totale nel caso di Fontana, perché è di Centrodestra, praticamente nullo nel caso della Prestipino, perché è di Centrosinistra.

La questione delle “razze umane” è un’imbecillità perché le “razze umane” non esistono. La biologia mostra e dimostra che ogni essere umano, di qualunque colore abbia la pelle, appartiene all’Homo sapiens sapiens, il nome con cui i biologi classificano ufficialmente l’uomo attuale. Che pure è biologicamente identico all’uomo arcaico, quello chiamato “semplicemente” Homo sapiens. L’unico modo per sostenere il contrario è postulare che, oltre alla specie sapiens, il genere Homo abbia conosciuto altre specie biologicamente diverse e quindi progenitrici di “razze” diverse. Ma è un problema che va posto direttamente agli evoluzionisti, non certo per esempio al cattolicesimo, da sempre granitico nell’affermare l’unicità del genere umano. Del resto gli evoluzionisti, assai prodighi di nomenclature tassonomiche nuove ogni qualvolta s’imbattono in un reperto fossile umano “sconosciuto”, da un po’ di tempo sono alle prese con un ridimensionamento realistico della selva di “specie” di cui lussureggiano i loro indimostrati alberi genealogici dell’umanità, riconoscendo che spesso si tratta solo di varietà locali o diacroniche dello stesso, unico Homo.

Le differenze tra le varietà locali dell’unico essere umano che constatiamo a occhio nudo (il colore della pelle, il taglio degli occhi, e così via) sono il modo con cui la biologia umana risponde a certe sollecitazioni, fra cui, sì, anche quelle ambientali (la pelle scura per proteggersi dal Sole alle latitudini dove i suoi raggi sarebbero altrimenti micidiali, gli occhi “a mandorla” per sopperire al riverbero abbacinante della luce sui ghiacci, e così via). Il che è però completamente diverso dal dire, come invece dice l’evoluzionismo, che le pressioni ambientali determinino i mutamenti genetici che genererebbero le specie nuove.

Le differenze biologiche tra le varietà si spiegano infatti ancora con il buon vecchio Aristotele: la biologia umana ha in sé potenzialità che attualizza quando deve rispondere a un bisogno. Le diversità nel colore della pelle umana dipendono dalle concentrazioni della stessa melanina che tutti hanno, non certo da una diversa genetica. Ma se quelle potenzialità non sono già insite nella biologia umana, nessun bisogno le produrrà dal nulla. Per quanto gli possano essere utili, insomma, le ali all’uomo non spunteranno mai perché la sua biologia non le possiede nemmeno in potenza. La biologia corrobora, dunque, il cattolicesimo sull’unicità del genere umano, mentre è il giro mentale evoluzionista che apre pericolosamente alla fantascientifica ipotesi che, durante la lunga marcia da scimmia a uomo, possano essere esistiti ceppi umani diversi da cui è semplice poi inferire la bugia delle “razze umane” con tutto il suo corollario di orrori. Basti solo pensare al povero pigmeo congolese Ota Benga (1883 ca.-1916), che, considerato l’anello di congiunzione tra uomo e scimmia dall’evoluzionismo dominante, fu rinchiuso in un zoo finché non si suicidò.

Affinché non sia cioè peloso l’odierno stracciarsi le vesti per le parole di Fontana, occorrerebbe primo che ci si stracciasse le vesti pure per le identiche parole della Prestipino, secondo che s’intentasse un processo culturale serio all’evoluzionismo e terzo che si denunciasse apertamente la matrice ideologica dell’idea balorda delle “razze umane” divise tra superiori e inferiori, aulenti e puzzone.

Il termine “razza” è stato infatti usato solo in zootecnia fino a che non lo ha applicato all’uomo, forse per primo, uno dei padri più stimati del pensiero progressista moderno: François-Marie Arouet (1694-1778), meglio noto come Voltaire. Lo fece nell’Essai sur les moeurs et l’esprit des nations et sur les principaux faits de l’histoire, depuis Charlemagne jusqu’à Louis XIII, del 1756, e da lì l’Illuminismo è stato un fiume in piena. Il tedesco Johann Heinrich Samuel Formey (1711-1797), un sacerdote completamente votato al nuovo verbo rivoluzionario, chiamò «termini estremi della razza dell’uomo» quei lapponi che Jean-Baptiste-Claude Delisle de Sales (1741-1816) definì «aborti della razza umana».

Quanto agli ottentotti, per Delisle de Sales «si tratta di uomini imperfetti», per il padre gesuita Guillaume-Thomas François Raynal (1713-1796), un altro apostata, «hanno qualcosa della sporcizia e della stupidità degli animali che rigovernano» e per Georges-Louis Leclerc conte di Buffon (1707-1788), uno dei primi evoluzionisti, sono un «popolo spregevole». Ecco ancora Voltaire: «Il brasiliano è un animale che non ha ancora raggiunto la maturazione della propria specie». Il tocco da maestro spetta all’ennesimo prete indegno stavolta pure spretato, padre del pensiero cattolico-democratico, Baptiste-Henri Grégoire (1750-1831), che non seppe fare di meglio che redigere un Essai sur la régénération physique, morale et politique des Juifs, vantata come «ouvrage couronné par la Société royale des Sciences et des Arts de Metz, le 23 Août 1788» di cui era membro. Contiene l’idea che gli ebrei, sbagliati, vadano rettificati. Sarà un caso che il primo genocidio della storia, quello giacobino contro i cattolici della Vandea fra 1793 e 1794, fu perpetrato al grido di «razza ribelle» (Bertrand Barère de Vieuzac, 1755-1834), «razza esecrabile» (tale A. Minier sul Journal de Paris il 31 dicembre 1793), «razza abominevole» (Marie Pierre Adrien Francastel, 1761-1831), «razza […] [che] dev’essere annientata» (Jacques Garnier detto Garnier de Saintes, 1755-1818?) e «animali con la faccia da uomini» (Camille Desmoulins, 1760-1794)?

Solo quando l’antirazzismo sacrosanto saprà riconoscere la matrice culturale del pensiero imbecille che ci assedia, sarà vera indignazione.