La rabbia afroamericana sfugge di mano
Due poliziotti uccisi a New York. Dilaga la violenza della comunità afroamericana che si sente perseguitata dalla polizia. Prima delle aggressioni e dei delitti si respirava già un clima di violenza, nelle manifestazioni "pacifiche". E la politica progressista americana ha le sue innegabili responsabilità nell'averla alimentata.
Il 20 dicembre, a New York, due agenti di polizia, Rafael Ramos e Wenjian Liu sono stati freddati a colpi di pistola mentre erano nella loro auto in servizio. L’attentatore, Ishmael Brinsley ha prima tentato la fuga, poi si è tolto la vita. Prima di compiere il suo folle gesto aveva già rivendicato l’aggressione sui social network. “Vado a mettere le ali a due porci. Due di loro per uno di noi”, riferendosi alla vendetta contro i poliziotti per l’uccisione di Eric Garner, morto per un collasso cardiaco dopo essere stato immobilizzato dalla polizia di New York in una posizione che ne ha provocato il soffocamento. Il doppio omicidio degli agenti non è un fatto isolato. Un altro agente di polizia è stato assassinato nei pressi di Tampa, in Florida e la polizia sta indagando sulle cause. E un quarto poliziotto è stato aggredito, questa volta non mortalmente, a poco più di ventiquattr’ore dall’uccisione dei suoi colleghi, sempre a New York. Un uomo, entrato in una stazione di polizia, gli ha spezzato un braccio.
Questa ondata di violenza non è casuale. Ma sarebbe troppo semplicistico interpretarla come una nuova tensione fra “neri” e “bianchi”. Eric Garner era un afro-americano, così come l’omicida Ishmael Brinsley. La vendetta a cui si riferisce è quella dei neri, perseguitati, a suo dire, dalla polizia. Le sue vittime non sono “bianche”, ma un agente latino-americano (Rafael Ramos) e uno di origine cinese (Wenjian Liu). La lotta è semmai quella della comunità afroamericana contro la polizia, in quanto tale. Non contro un’etnia rivale. In questo occorre capire quanta sia la responsabilità della polizia, quanta quella della politica e quanto quella del movimento dei diritti civili, che si sta mobilitando da anni. Il 26 febbraio 2012 un vigilante (di origine latino-americana) uccide Trayvon Martin, afroamericano. Il processo che segue assolve il vigilante: ha agito per legittima difesa, anche se Martin era disarmato. Ma nel frattempo il movimento per i diritti civili degli afroamericani si è mobilitato e non ha mai cessato di dipingere Martin come una vittima di un abuso razziale. Il 9 agosto scorso, un poliziotto (un bianco, questa volta) uccide Michael Brown. Anche in questo caso l’agente, una volta processato, risulta innocente: ha agito per legittima difesa. Ma anche qui il movimento per i diritti civili si mobilita e protesta contro la sentenza, che ritiene ingiusta e discriminatoria su basi razziali. Il 17 luglio viene arrestato Eric Garner, ma l’azione della polizia, condotta con estrema durezza, contribuisce alla sua morte. Il Gran Giurì riunito per giudicare gli autori dell’arresto decide di non incriminarli. E la protesta dilaga.
Se ne deduce che la polizia statunitense, non solo quella di New York, impieghi metodi di ingaggio veramente duri, brutali, ma entro i limiti della legge degli Stati Uniti. La magistratura, infatti, in base alle prove e alle testimonianze raccolte e dopo un regolare giudizio, ha sempre mandato assolti gli agenti accusati di abuso in tutti questi ultimi celebri casi. Il dibattito, a questo punto, dovrebbe spostarsi sulle stesse regole di ingaggio della polizia, sull’addestramento degli agenti, sul loro modo di operare. Non sul conflitto razziale. Ma invece, considerando che le tre vittime delle azioni di polizia sono tutti e tre afroamericane, è passata la tesi, prima nei media poi nella politica, fino ai massimi livelli, che la comunità afro-americana sia vittima della persecuzione della polizia. Questo luogo comune è in parte fondato, ma in gran parte resta un luogo comune smentito dai fatti. Ma è proprio l’aver giocato la carta razziale, da parte di attivisti dei diritti umani come Al Sharpton e di politici di alto profilo, come lo stesso sindaco di New York, Bill de Blasio, che ha alimentato prima la protesta, poi l’ondata di violenza.
Non è per nulla che, nel corso delle esequie dei due poliziotti uccisi a New York, ufficiali della polizia, indignati con il loro sindaco, gli abbiano deliberatamente voltato le spalle. Al sindaco ultra-progressista viene imputato il sostegno politico al movimento di protesta che ha, poi, istigato l'odio. “Se si uccidono i poliziotti si distruggono le basi della società civile” ha dichiarato de Blasio, visibilmente commosso, nel suo discorso in memoria dei due agenti uccisi. Ma per Patrick Lynch, il capo di uno dei più influenti sindacati della polizia, il Pba, “C’è sangue su molte mani, questa sera. Quel sangue parte dalle scale del municipio, nell’ufficio del sindaco”. Non gliele ha mandate a dire, insomma. Perché, d’altra parte, lo scorso 13 dicembre, all’indomani dell’assoluzione dei poliziotti implicati nel caso di Eric Garner, un’imponente manifestazione di afroamericani e militanti di estrema sinistra, bloccava il traffico sul ponte di Brooklyn, prendeva a calci le auto della polizia e urlava lo slogan “Cosa vogliamo? Poliziotti morti! Quando? Adesso!”. Era il caricamento prima dello sparo, l’istigazione prima del delitto. E de Blasio come ha reagito? Facendo una ramanzina alle forze di polizia locali, pronunciando un discorso in cui sosteneva che sua moglie e suo figlio (entrambi neri) non potessero “sentirsi al sicuro di fronte a quelle stesse persone in cui vorrebbero aver fiducia, in quanto loro protettori”. Rudolph Giuliani, ex sindaco di New York, punta chiaramente il dito sulle responsabilità, politiche non penali, dell’attuale primo cittadino ultra-progressista: “Abbiamo avuto quattro mesi di propaganda, a partire dal presidente, sentendoci ripetere che ognuno dovrebbe odiare la polizia”. Giuliani lo ha dichiarato a Fox News la scorsa domenica, affermando che il sindaco “non sia responsabile per questo (per il duplice omicidio dei poliziotti, ndr). Io penso che sia scorretto dirlo e credo sia un’accusa incendiaria. Io penso, però, che debba cambiare politica”. Giuliani, il padre della “tolleranza zero” ha reso New York un luogo sicuro in cui vivere, dopo decenni di declino dell’ordine pubblico. I suoi giudizi, dunque, sono molto credibili per i newyorkesi e per gli americani in generale.
L’attenzione si concentra ora sui leader del movimento dei diritti civili dei neri, in particolar modo sul reverendo Al Sharpton, che ha promosso e organizzato le marce di protesta del 13 dicembre. Sharpton, 60 anni suonati, è un attivista che ha svolto un ruolo da protagonista nell’ultimo trentennio, buon amico di Obama e leader della National Action Network. Ora si trova letteralmente fra due fuochi. I conservatori lo considerano come il principale istigatore dell’odio contro la polizia e lo giudicano responsabile ideologico della morte dei due agenti. Perché, oltre ad essere autore di pittoreschi discorsi sulla superiorità dei neri (come “Noi costruivamo imperi, quando i bianchi erano ancora nelle caverne”), ha sempre puntato ad affermare i diritti “dei neri”. Ora, però, il nuovo movimento degli afroamericani lo vede come un uomo d’establishment e sta perdendo la fiducia in lui. Al Sharpton si sente nel mirino, in questi giorni dice di ricevere minacce di morte da parte di razzisti e ha deciso di annullare, per ragioni di sicurezza, un evento in una chiesa di North Charleston, che avrebbe dovuto tenere oggi.
Al Sharpton non era a New York, mentre i manifestanti inneggiavano alla morte dei poliziotti. In quel giorno era a Washington DC, a tenere un discorso molto più equilibrato, in cui sosteneva che “Questo non è un conflitto fra bianchi e neri, ma fra la giustizia e l’ingiustizia”, chiedendo nuove regole per la polizia, contro ogni tipo di abuso. Ma nella stessa manifestazione del 13, non tutti lo hanno seguito. “Questo movimento è stato formato dai giovani – ha proclamato un’attivista che ha preso la parola sul palco dopo il reverendo, nella capitale – E penso che quello di cui abbiamo bisogno è azione, non uno spettacolo. E questo è solo uno spettacolo”. Almeno una dozzina di leader delle manifestazioni hanno fatto discorsi dello stesso tenore, affermando che, ormai, Sharpton sia un uomo del passato, che i suoi metodi siano superati. I nuovi metodi sono molto più diretti, maturati nelle manifestazioni di Occupy. Organizzazioni della nuova generazione di afroamericani contro la polizia, come Tribe X e Lost Voices, si auto-organizzano, non hanno bisogno di mediazioni politiche, occupano spazi pubblici, bloccano il traffico, affrontano gli agenti a muso duro, arrivando agli insulti. E dalle manifestazioni “non violente” si stacca regolarmente una frangia di violenti veri, quelli che attaccano le forze di polizia o saccheggiano i negozi, approfittando del caos generale.
Il progressista de Blasio, il vecchio attivista Sharpton non si sono dimostrati al passo coi tempi. Non devono aver capito cosa stesse montando nel movimento di protesta. Hanno fallito nel loro tentativo di canalizzare la rabbia nella politica. Hanno finito, involontariamente, per istigare un’ondata di violenza. Accusarli di avere le mani insanguinate è troppo, una scivolata politica di cattivo gusto. Definirli apprendisti stregoni, piuttosto, sarebbe più appropriato. E Barack Obama, che attualmente è nelle Hawaii in vacanza, dovrebbe tenerne conto.