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Ora di dottrina / 130 – Il supplemento

La questione del Filioque nel primo millennio

Prima della polemica foziana, la dottrina legata alla processione dello Spirito Santo anche dal Figlio e il suo inserimento nel canto del Credo erano realtà sostanzialmente pacifiche. Viaggio nel primo millennio cristiano.

Catechismo 22_09_2024

La strada che ha condotto al confronto tra Greci e Latini al Concilio di Ferrara-Firenze è stata lunga e accidentata, ma c'è un dato inequivocabile: prima di arrivare al 1438, sia la dottrina legata al Filioque (sulla base della spiegazione che ne davano i Padri, vedi qui e qui) che la sua inserzione nel canto liturgico del Simbolo erano una realtà per buona parte della Chiesa latina, senza che questo avesse mai provocato rotture con la Chiesa greca. Almeno fino alla polemica foziana. Ma anche con l'avvento di Fozio alla sede del patriarcato di Costantinopoli, bisogna notare che il patriarca bizantino, che aveva soppiantato Ignazio nella sede patriarcale, inviò a papa Nicolò I, con lo scopo di ingraziarselo, una lettera piena di deferenza e rispetto, nella quale non fece il benché minimo accenno a quella che da lì a poco, dopo che il Papa riconobbe la legittimità di Ignazio e dunque l'illegittimità di Fozio, sarebbe divenuta la somma di tutte le eresie della Chiesa latina, con la quale pertanto non si poteva e non si doveva avere più alcuna comunione.

Johannes Grohe, professore di Storia della Chiesa alla Pontificia Università della Santa Croce, aveva riportato alla luce una preziosissima testimonianza della processione dello Spirito Santo anche dal Figlio negli Atti del Sinodo di Ctesifonte del 410 [vedi Il Filioque. A mille anni dal suo inserimento nel Credo a Roma (1014-2014), pp. 15-36]. Cessata, seppure per poco tempo, la persecuzione a danno dei cristiani nel Regno di Persia, i vescovi poterono finalmente convocare un concilio per recepire le indicazioni di Nicea e sistemare la liturgia. Nella ripresentazione del Simbolo niceno si notano alcune “varianti”, tra cui proprio quella relativa alla processione dello Spirito Santo: «professiamo il vivo e Santo Spirito, il Paraclito vivente del Padre e del Figlio». Il sospetto che si tratti di un testo manipolato è stata esclusa dagli storici. La notevole importanza di questo testo sta anzitutto nella sua antichità, che lo rende la prima testimonianza scritta di una formula filioquista nel Simbolo. E questo primato appartiene ad una Chiesa orientale!

Giustamente il prof. Grohe ha fatto notare che con ogni probabilità questo testo non era conosciuto nella Chiesa antica, latina e greca, non solo per la quasi continua situazione di persecuzione della Chiesa persiana, ma anche perché, con il rifiuto del Concilio di Efeso (431), quest'ultima si isolò dalle altre Chiese. Ma resta il fatto che, all'inizio del V secolo, ossia all'epoca dei grandi Padri, abbiamo già la presenza, nel Simbolo, del Figlio per la processione dello Spirito.

Se spostiamo la nostra attenzione alle Chiese d'Occidente, troviamo che il centro propulsore filioquista fu la Spagna. L'importante Concilio di Toledo del 589, che sanciva il passaggio dei Visigoti dall'arianesimo al cattolicesimo, professava la processione dello Spirito dal Padre e dal Figlio, sebbene si debba attendere il 653, anno dell'ottavo Concilio di Toledo, per trovare la formula filioquista nel Simbolo della Messa (ex Patre et Filio procedentem). È importante tenere presente il contesto antiariano di queste formulazioni, perché indica la particolare attenzione dedicata proprio al dogma trinitario.

I testi dei concili voluti dal re Recaredo vennero raccolti nella Collectio Hispanica, collezione che permise il “passaggio” al Regno dei Franchi. Grazie allo zelo del patriarca di Aquileia, Paolino, vennero prese una serie di misure per arginare l'eresia adozionista, dunque, di nuovo, un'eresia che colpiva al cuore il dogma trinitario e quello cristologico. Nel sinodo di Cividale del Friuli (796/797), proprio per difendere la fede, si decise di precisare la formula del Simbolo di Nicea; è degno di nota che Paolino fosse assolutamente consapevole del fatto che si stavano aggiungendo delle parti al Simbolo, ma respinse l'accusa di arbitraria innovazione rifacendosi all'esempio dei padri di Costantinopoli, i quali apportarono numerose modifiche al Simbolo di Nicea; «e tuttavia – spiegava Paolino – non sono da incolpare questi santi Padri [di Costantinopoli]come se avessero aggiunto o tolto qualcosa dalla professione di fede dei trecentodiciotto Padri [di Nicea], perché non diedero un senso diverso, contrario al pensiero di quelli, ma si preoccuparono di completare correttamente la loro immacolata interpretazione» (Opere I/1, 2007, p. 163, in Il Filioque, cit. p. 30).

Un completamento si era reso necessario proprio in funzione antiadozionista nel Regno carolingio, sul finire dell'VIII secolo, e l'inserzione del Filioque rispondeva proprio a questa necessità: la processione dello Spirito dal Padre e dal Figlio fungeva, infatti, da “rinforzo” della verità che il Padre è nel Figlio e il Figlio nel Padre sostanzialmente, per cui lo Spirito non poteva procedere dall'uno senza procedere anche dall'altro.

L'inserzione del Filioque nel Simbolo fu invece opera del Concilio di Aquisgrana (799), che permise la sua diffusione in tutto l'impero di Carlomagno. E oltre. Perché alcuni monaci franchi, giunti a Gerusalemme, pensarono di introdurre nella liturgia della Messa l'uso di cantare il Credo con il Filioque; ma i monaci greci non parvero gradire, dal momento che li accusarono di eresia e li vessarono. Si fece dunque ricorso a Leone III, il Papa dell'incoronazione di Carlo Magno, il quale confermò la dottrina della processione dello Spirito dal Padre e dal Figlio. Un nuovo concilio nella città della residenza imperiale venne convocato nell'809, i cui atti vennero inviati al Papa. Leone III ne approvò i contenuti, ma dissentì dall'inserzione del Filioque nel Credo, cosa che non era in uso nemmeno nella Chiesa di Roma, motivando questa sua posizione con il fatto che non ogni verità di fede dovesse essere necessariamente inserita nel Simbolo liturgico. Il Papa domandò quindi che si sospendesse gradualmente l'usanza di cantare il Credo nella Messa, per scongiurare da un lato un contrasto interno alla Chiesa con i Greci, e per evitare però dall'altro che passasse l'idea che la processione anche dal Figlio non fosse conforme alla dottrina della Chiesa. Dunque, non togliere il Filioque, ma conformarsi all'uso romano di non cantare il Credo nella liturgia.

Per confermare ulteriormente questa sua decisione, egli fece preparare due tavole d'argento, l'una con inciso il Simbolo in greco l'altra con quello in latino, senza il Filioque –, e le fece collocare nella Basilica di San Pietro «pro amore et cautela orthodoxæ fidei».

Nel territorio carolingio di fatto non si seguirono le indicazioni papali, mentre a Roma si continuava a non cantare il Credo. Questa “strana” usanza romana venne notata più tardi dall'imperatore, Enrico II, quando ricevette a Roma l'incoronazione imperiale da parte di papa Benedetto VIII, il quale avrebbe acconsentito a conformare l'uso della Chiesa romana a quella franco-tedesca nel 1014.

Un'ultima considerazione relativa a questa sintesi relativa al primo millennio. Il Concilio di Costantinopoli dell'879, convocato dallo stesso Fozio e al quale parteciparono vescovi in prevalenza foziani, affrontò il problema dell'inserimento del Filioque nel Credo, affermando la proibizione di aggiungere alcunché al Simbolo, ma non pronunciò nessuna condanna quanto al relativo contenuto dottrinale.



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