La polveriera turca rischia di esplodere
La Turchia, da cui arriva il grosso dell'ultima ondata di profughi in Europa, è diventata una polveriera pronta a scoppiare. Nell'Est e nel Sud dell'Anatolia è scoppiata di nuovo la guerra contro i curdi. In questa situazione, Erdogan si appresta alle elezioni anticipate di novembre con un piglio sempre più autoritario.
“La Turchia è sull’orlo della guerra civile”. A dichiararlo al quotidiano britannico Guardian è il leader del Partito Democratico del Popolo (Hdp) Salahettin Demirtas. A originare l’ondata di profughi nell’Europa balcanica e centrale c’è anche questo: la Turchia sta diventando una polveriera e con le elezioni previste il prossimo novembre, la situazione potrebbe ulteriormente peggiorare.
L’Hdp, nelle ultime elezioni turche del 7 giugno è riuscito per la prima volta a superare la soglia di sbarramento del 10% (una delle più alte in assoluto nei sistemi elettorali) e ad affermarsi come quarto partito a livello nazionale con il 13,1% dei voti, più del doppio delle scorse elezioni. Il dato nazionale cela il fatto che l’Hdp è ormai al governo in tutte le province dell’Anatolia sudorientale, dove i curdi sono maggioranza. L’ingresso dei curdi nella scena parlamentare ha messo in crisi la maggioranza del partito islamico di Erdogan (Akp) facendogli perdere la possibilità di formare un governo monocolore. Fallite tutte le trattative, si è deciso di rifare le elezioni a novembre, dove il presidente mira a ottenere una maggioranza schiacciante e a eliminare la presenza curda dal parlamento. Fuori dal parlamento la “campagna” è già cominciata, con metodi non politici: attacchi di nazionalisti turchi contro le sedi dell’Hdp curdo, a cui i curdi rispondono con manifestazioni violente nelle città in cui sono maggioranza, a Cizre soprattutto.
Secondo Demirtas, “Sta diventando impossibile organizzare le elezioni, viste le condizioni di insicurezza in cui versa questa regione. Stiamo subendo una campagna di linciaggio”. Sia il quartier generale dell’Hdp ad Ankara che centinaia di altre sedi in tutta la Turchia e redazioni di giornali e media d’opposizione hanno subito attacchi “coordinati”. Parallelamente, a livello legale, la magistratura turca sta indagando su Demirtas e potrebbe negargli l’immunità parlamentare. L’accusa è di istigazione alla violenza politica. Se questa è la guerriglia politica, la guerra vera si combatte nella città di Cizre, tuttora sottoposta a regime di coprifuoco. Gli scontri fra i curdi e forze di sicurezza turche hanno causato la morte di 32 curdi. Secondo fonti turche si tratta di 32 miliziani armati, secondo fonti curde e la Ong per i diritti umani Ihd fra le vittime ci sono anche 22 civili disarmati. Cizre presenta ora uno scenario simile a quello delle città bombardate in Siria, con interi isolati distrutti. E in questi giorni, fra la popolazione curda, si sta diffondendo la voce che i turchi abbiano lasciato trappole esplosive negli edifici evacuati, per impedire il ritorno degli abitanti. Le autorità turche negano e dimostrano come questa leggenda nera si sia diffusa tramite video che mostrano gli artificieri della polizia che rimuovono dalle case gli ordigni lasciati dai separatisti curdi. Vera o falsa che sia, questa notizia ha scatenato il panico.
Il conflitto politico si inserisce nel più ampio contesto della guerriglia condotta dal Partito dei Lavoratori Curdi, il famigerato Pkk. La tregua che stava reggendo, bene o male, sin dal 2013 e che rischiava di saltare un anno fa a causa della battaglia di Kobane (la città assediata dall’Isis mentre i turchi restavano a guardare), è finita definitivamente lo scorso luglio. La causa del conflitto arriva sempre dalla Siria: il 20 luglio un terrorista suicida dell’Isis si è fatto esplodere nella città di Suruc, durante una manifestazione politica curda, uccidendo 33 persone e ferendone altre 104. Suruc si trova solo a una decina di chilometri da Kobane, che in quei giorni era sotto un nuovo attacco dell’Isis, per cui l’attentato si spiega come una prosecuzione delle operazioni degli jihadisti contro i curdi anche in territorio turco. Il Pkk ha accusato il governo di Ankara di non aver protetto i suoi cittadini curdi, di non aver fatto nulla per Kobane e, di fatto, di aver favorito la causa dell’Isis. Quindi la vendetta è stata rivolta contro le forze dell’ordine turche, con un primo attentato il 22 luglio a Ceylanpinar, in cui il Pkk ha ucciso due agenti dell’antiterrorismo. Il giorno dopo un altro poliziotto è stato assassinato a Diyarbakir. Da quel momento in poi non è passato giorno senza attentati del Pkk: poliziotti rapiti e uccisi, imboscate a contingenti militari, sabotaggi ai gasdotti. Le perdite peggiori sono state inflitte con l’uso di mine artigianali da strada (Ied) che il Pkk ha imparato a usare nella lunga esperienza di guerriglia irachena: 14 caduti turchi in un solo giorno, 16 il giorno successivo, con due sole bombe. La Turchia ha risposto pesantemente con una serie di raid dell’aviazione contro i santuari del Pkk nell’Iraq settentrionale e in Siria. Raid che tuttora continuano: un bombardamento nel Nord iracheno, ieri, ha provocato la morte di 55 guerriglieri curdi.
La guerriglia urbana di Cizre è anche sostenuta da uno dei gruppi armati curdi vicini al Pkk, per cui i due fronti (interno ed esterno) si sovrappongono. E gli stessi scontri a Cizre stanno provocando le reazioni curde, come l’attentato di venerdì scorso a Diyarbakir dove uomini armati del Pkk, per vendicare la repressione nella città, hanno aperto il fuoco in un locale frequentato dalla polizia, ferendo tre agenti e uccidendo per errore un cliente che non c’entrava nulla.
Le conseguenze di questa recrudescenza di guerra civile sono inevitabilmente molto gravi. In primo luogo rischiano di spaccare del tutto la coalizione anti-Isis. La coalizione regge, se si riconosce ai curdi un ruolo fondamentale nella resistenza contro gli jihadisti. Attualmente è solo nel Kurdistan iracheno che cristiani e yezidi trovano un rifugio sicuro e solo le milizie peshmerga curde dimostrano di aver la determinazione necessaria a sconfiggere le truppe del Califfato in campo aperto. La Turchia, che ospita la base statunitense di Incirlik (un tassello fondamentale nella guerra all’Isis), intensificando la sua guerra contro i curdi, non fa che aggiungere un ennesimo conflitto parallelo nella già intricata crisi siriana e irachena. Ma conseguenze ancora peggiori possono esserci in Turchia. Già nel corso di questa guerriglia, le autorità hanno imposto restrizioni ai media e ai privati social network senza precedenti. Anche due giornalisti britannici di Vice News sono stati arrestati e detenuti per un breve periodo, solo perché tentavano di documentare la guerra. La tendenza autoritaria del presidente islamico Erdogan è sempre più manifesta. Affrontare le elezioni a novembre in una situazione di guerra civile, può portare direttamente all’autoritarismo. Una terza conseguenza riguarda l’Europa stessa, perché se già ora dobbiamo affrontare un’ondata di profughi provenienti soprattutto dai campi per i rifugiati in Turchia, se la polveriera turca esplode dovremmo far fronte a un vero e proprio esodo. Sono quasi due milioni i siriani e gli iracheni che finora hanno trovato rifugio in Turchia.