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FOSCOLO. ASSOLUTO E ILLUSIONI/ 6

La poesia vive nel rapporto con la memoria letteraria

Pubblicato a Pisa nel 1803 con il nome di Poesie, il canzoniere di Foscolo è uno dei più esili della tradizione letteraria italiana, costituito com’è da solo quattordici poesie: due odi e dodici sonetti. Tra questi, spiccano per la bellezza e per la perfezione formale i notissimi Alla sera, A Zacinto, In morte del fratello Giovanni.

Cultura 22_03_2015
Ugo Foscolo

Pubblicato a Pisa nel 1803 con il nome di Poesie, il canzoniere di Foscolo è uno dei più esili della tradizione letteraria italiana, costituito com’è da solo quattordici poesie: due odi e dodici sonetti. Le due odi sono intitolate A Luigia Pallavicini caduta da cavallo e All’amica risanata (Antonietta Fagnani Arese). Una rapida incursione nei titoli dei sonetti ci documenta, invece, l’esasperata tendenza di Foscolo all’egocentrismo, all’eccessiva auscultazione di sé e all’autoritratto. Del resto, già nell’Ortis si è potuto constatare come Foscolo tendesse a raccontare la propria vita, le contraddizioni e il proprio itinerario esistenziale e religioso attraverso la prosa del romanzo. 

Ecco l’ordine progressivo dei sonetti: Alla sera, Di se stesso, Per la sentenza capitale proposta nel gran consiglio cisalpino contro la lingua latina, Di se stesso, «Di se stesso all’amata», «All’amata», «Il proprio ritratto», «A Firenze», «A Zacinto», In morte del fratello Giovanni, Alla Musa, A se stess». Tra tutti questi spiccano per la bellezza e per la perfezione formale i notissimi Alla sera, A Zacinto, In morte del fratello Giovanni. Partiremo proprio dalla lettura di quest’ultima poesia, esemplare della propensione di Foscolo a soffermarsi sulla propria condizione anche questa lo sguardo dovrebbe essere rivolto al fratello morto. 

Quando nel 1801 Giovanni muore suicida, forse per debiti di gioco, Foscolo decide di dedicargli un componimento. Si chiede per prima cosa quali autori nel passato abbiano già cantato il dolore per la perdita di un  fratello scomparso o della donna amata. Come può non ricordarsi del carme CI composto da Catullo per la morte del fratello più di milleottocento anni prima? L’arte è sempre contemporanea all’uomo, parla sempre al suo cuore quando è vera e autentica, perché sa toccare le corde più profonde e ridesta le domande che sono proprie di ciascuno di noi. Catullo scrive: «Multas per gentis et multa per aequora vectus/ advenio has miseras, frater, ad inferias,/ ut te  postremo donarem munere mortis/ et mutam nequiquam alloquerer cinerem» ovvero, in traduzione, «Di gente in gente, navigando per molti mari sono arrivato, fratello, a queste pietose inferie, per renderti il postremo ufficio della morte e parlare al muto cenere, invano».

Foscolo pensa, poi, ad altri episodi letterari in cui si racconta della morte di un caro. Rammemora il mito di Orfeo ed Euridice così come viene raccontato da Virgilio nelle Georgiche. Una volta perduta Euridice, morta in seguito al morso di un serpente, Orfeo scende agli inferi e riesce a commuovere Proserpina e Plutone, la regina e il re dell’Ade, così da ottenere di poter riportare con sé l’amata a patto di non volgersi a guardarla finché non avrà varcato la soglia dell’Oltretomba. Proprio quando gli sembra di aver superato la prova, dimentico degli accordi, Orfeo si volta perdendo, così, Euridice per sempre. Virgilio di lei scrive a questo punto: «invalidasque tibi tendens, heu non tua, palmas» che tradotto suona così: «mentre le svigorite mani, ahi non più tua, io tendo». Foscolo si ricorderà di queste parole quando dovrà parlare di sé, della sua lontananza dalla tomba del fratello, del suo protendersi inutilmente verso Giovanni. Nascerà, così, il verso: «Ma io deluse a voi le palme tendo». La chiara allusione al testo virgiliano e il richiamo alla perdita di Euridice hanno come obiettivo quello di arricchire di significazioni il nuovo testo, di riecheggiare il vecchio mito al lettore attento, sovrapponendo l’antica storia alla nuova. Il dolore per il fratello è, così, coscientemente o incoscientemente paragonato a quello della morte della propria amata, addirittura una seconda volta, dopo che lei è richiamata in vita: è, quindi, la sofferenza più atroce e ingiusta che si possa provare. Questo all’incirca potrebbe essere il senso dei richiami foscoliani, definiti con termine tecnico allusioni.

Ma non è finita qui. Foscolo, infatti, decide di porre una figura che sia intermediaria tra lui e il fratello: la madre, ormai anziana, stanca, che si trascina a fatica, forte solo della fede che ancora conserva nel Signore. Allora, gli viene in mente un’immagine cara, quella del vecchierello di Petrarca, che è partito per Roma per vedere la Veronica e che, forse, non farà più ritorno alla sua famiglia. Petrarca lo ha, così, descritto nel suo lento camminare: «Movesi il vecchierel canuto et biancho/ del dolce loco ov’à sua età fornita/ et da la famigliuola sbigottita/ che vede il caro padre venir manco;/ indi trahendo poi l’antiquo fianco/ per l’extreme giornate di sua vita,/ quanto più pò, col buon voler s’aita,/ rotto dagli anni, e dal camino stanco». Quel verso lentissimo («indi trahendo poi l’antiquo fianco»), giocato sul gerundio e su una accentazione che ben si adatta all’immagine del cammino faticoso, viene ripreso da Foscolo per descrivere l’incedere della madre: «La madre or sol, suo dì tardo traendo,/ parla di me col tuo cenere muto». Foscolo usa anch’egli lo stesso verbo latino, che significa «trascinare», adopera il gerundio e accenta il verso in modo da riprodurre il passo con la cadenza uno - due, uno - due, … propria della camminata. Perché Foscolo vuole richiamare alla memoria il vecchierello di Petrarca? Quale effetto pensa di produrre sul lettore? Probabilmente, l’allusione a questa figura religiosa e devota mira ad accostare la madre di Foscolo, animata dalla fede e punto costante di riferimento per il poeta, al personaggio petrarchesco che lascia tutto per l’Ideale, per Cristo.

Molti storceranno il naso di fronte alla metodologia di lavoro di Foscolo. L’idea contemporanea di arte, infatti, risente fortemente della convinzione che l’originalità sia la cifra caratteristica dell’opera artistica e che coincida nell’inventare ex novo tutta la scrittura: una convinzione, per dire la verità, in parte figlia di una comprensione parziale del Romanticismo. Quanto lontano è questo pensiero dal metodo di lavoro proprio della maggior parte degli artisti, almeno fino alla fine del Settecento! Fino ad allora, infatti, l’arte ha sempre vissuto nel rapporto dialettico della contemporaneità con le opere del passato, in un rapporto, cioè, di innovazione costante all’interno, però, della tradizione. Alla fine di questo processo dialettico, ecco il risultato eccelso conseguito da Foscolo: «Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo/ di gente in gente, me vedrai seduto/ su la tua pietra, o fratel mio, gemendo/ il fior de’ tuoi gentili anni caduto./ La madre or sol, suo dì tardo traendo,/ parla di me col tuo cenere muto:/ ma io deluse a voi le palme tendo;/ e sol da lunge i miei tetti saluto,/ Sento gli avversi  Numi, e le secrete/ cure che al viver tuo furon tempesta,/ e prego anch’io nel tuo porto quiete./ Questo di tanta speme oggi mi resta!/ Straniere genti, almen l’ossa rendete/ allora al petto della madre mesta».