La persona nell'informazione digitale: il libro di Razzante
Il Manuale di diritto dell’informazione e della comunicazione, del professor Razzante è giunto alla sua ottava edizione. Domanda essenziale in questi tempi digitali: come tutelare la persona e la sua dignità? A Milano, alla presentazione del volume, rispondono i big del mondo dei media e del diritto, fra cui Marcello Foa, presidente della Rai.
Il Manuale di diritto dell’informazione e della comunicazione, del professor Ruben Razzante (firma della Nuova Bussola Quotidiana), è giunto alla sua ottava edizione. Una la domanda essenziale in questi tempi digitali: come tutelare la persona e la sua dignità? A presentarlo a Milano, nella splendida e reclusa cornice di Palazzo Cusani, assieme all’autore, c’era un parterre di presidenti di tutti gli organismi interessati ai vari ambiti toccati direttamente dal tema: comunicazione, tecnologia, diritto e deontologia giornalistica. Era presente il presidente della Rai, Marcello Foa, il presidente di Confindustria Digitale Cesare Avenia, il presidente dell’Ordine degli Avvocati di Milano Vinicio Nardo, il presidente del Tribunale di Milano Roberto Bichi e il presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia Alessandro Galimberti. Moderati da Sandro Neri (direttore de Il Giorno), gli illustri relatori hanno dipinto un quadro a tinte fosche dei rischi che si corrono nella nuova comunicazione, nell’era della rivoluzione digitale.
Marcello Foa, nuovo presidente Rai si è schierato in difesa della persona, da ogni forma di linciaggio mediatico. “Io non auguro a nessuno – ha detto in esordio – di rimanere vittima di un linciaggio mediatico. Oggi si corre il rischio di digitare il proprio nome su Google e di trovare ogni tipo di diffamazione”. Dal punto di vista dei media, “quando una persona viene accusata ingiustamente, è già in sé una sconfitta. Ma la è ancor di più se questa accusa falsa e infamante resta in vita nel Web. Ecco perché, come servizio pubblico, non dobbiamo attendere i solleciti, dobbiamo essere i primi a rimuovere del tutto un articolo, un servizio televisivo, qualunque forma di comunicazione che contenga notizie false. Tutto questo rientra in un percorso di credibilità che è fondamentale. Una democrazia sana ha bisogno di media responsabili, coraggiosi, autorevoli, che godano della fiducia dei cittadini”.
Cesare Avenia, dal canto suo, ritiene che lo sviluppo tecnologico sia ineluttabile e non vada temuto. “Questo ritardo che abbiamo in Italia è anche dovuto al fatto che nel dibattito prevalgono i toni allarmistici”. Anche se mette in guardia sui rischi: “Quello che vedete adesso è solo la punta dell’iceberg, quel che sta arrivando è ancora inimmaginabile tanto sarà pervasivo”. Perché: “L’intelligenza artificiale sta per arrivare. L’uso dell’intelligenza artificiale può creare problemi di tipo nuovo: se noi oggi ci lamentiamo delle fake news, l’intelligenza artificiale può crearne in continuazione, in modo completamente automatico, mettendo assieme dati sotto forma di storie credibili tramite algoritmi”. Avenia ritiene che il futuro post-rivoluzione digitale debba essere materia di trattati internazionali, tanto è vasto il suo impatto: “Per ora non ci sono iniziative che affrontano le conseguenze della rivoluzione digitale. Che non sono meno importanti della precedente rivoluzione industriale. Con gli accordi di Bretton Woods si stabilirono le linee di convivenza fra nazioni industrializzate, mentre manca del tutto una Bretton Woods per il digitale, che vede già contrapporsi un blocco cinese a un blocco americano e un’Europa purtroppo assente. A livello europeo, un’eccezione virtuosa è la regolamentazione Gdpr (tutela della privacy, ndr), un esempio di come si possa creare regole credibili che possano valere per tutti. Sull’intelligenza artificiale dovremmo procedere nella stessa direzione”.
“La rivoluzione industriale ha provocato due guerre mondiali. Io credo che con la rivoluzione digitale, la guerra ci sia già. Perché sta fornendo gli strumenti per condurre piccole guerre a bassa intensità, non guerreggiate in modo tradizionale – dice Vinicio Nardo, il cui Ordine degli Avvocati milanese si trova in prima linea - Il problema è più difficile da risolvere di quanto non si creda. Noi abbiamo sempre considerato la diffamazione a mezzo stampa come la forma più grave di diffamazione, perché la stampa è maggiormente in grado di condizionare l’opinione pubblica”. Ma “quando il reato di diffamazione a mezzo stampa venne introdotto, il ciclo della notizia durava un giorno: veniva diffusa dalle agenzie, poi il giornalista ne ricavava un articolo, poi andava in stampa e il giorno successivo era in edicola. C’era tutto il tempo per intervenire, dalla sua conoscenza fino alla sua distribuzione. Se al ministro scappava un’affermazione sbagliata, se definiva ‘Azzeccagarbugli’ gli avvocati, aveva il tempo per pubblicare una smentita. Oggi non è così. L’America si sveglia alla mattina e la prima cosa che legge non è il New York Times o il Washington Post, ma i primi tweet di Trump. E questi tweet non riguardano quel che il presidente ha mangiato a colazione, ma la Cina, l’India, le massime questioni mondiali. E quella giornata sarà condizionata dai suoi tweet”
A Roberto Bichi (presidente del Tribunale di Milano), Neri chiede: “Si può chiedere a un giudice che una pagina social venga chiusa, con una normale causa di diffamazione a mezzo stampa?” Bichi premette: “Non c’è più il monopolio del diritto da parte dello Stato nazionale, con un giudice che lo applica. Siamo in un mondo di diritto liquido e sconfinato, dove le fonti del diritto, oltre ai parlamenti nazionali, sono anche quelle europee, non statuali, internazionali, convenzionali”. Inoltre “la velocità di trasformazione dei nuovi media è tale che è il diritto che li insegue”. Ma per la diffamazione il diffamato è tutelato anche nell’informazione online? “Dobbiamo distinguere le testate digitali, per le quali è prevista la registrazione come se fossero giornali stampati. Si è discusso se sui giornali digitali si possa intervenire con la possibilità di sequestro del sito, o divieto di pubblicazione o rimozione dell’articolo. Vi è anche la stessa responsabilità per il direttore? Questi sono stati i punti principali del dibattito negli ultimi anni. Chi è diffamato ha comunque diritto al risarcimento. Il problema è nella tutela immediata, nell’intervento repressivo immediato”. Ma se vengo diffamato su un social network o in una pagina Web? No. “Il divieto di interventi repressivi impedisce la soppressione della pagina Web”. Semmai, per tutelare la persona colpita, in base ai precedenti giudiziari, “si è adottato il principio della dialettica: riportare anche la versione della parte lesa nella pagina Web, per completare l’informazione”.
Chiamato in causa sulla deontologia (“l’unica cosa che permette di distinguere fra un giornalista e il rumore di fondo della rete”), Alessandro Galimberti lancia un j’accuse agli over the top della rete: “Sui social network è impossibile chiedere la collaborazione giudiziaria dell’unico soggetto che è in grado di identificare con certezza chi sta commettendo un reato, cioè il proprietario. Su Facebook, l’unico in grado di identificare chi commette un reato è lo stesso Facebook e non collaborerà, né la magistratura ha la possibilità di obbligare a farlo. È molto più semplice commettere un reato su Facebook o su qualunque altro social network, con un’identità fittizia e simulando una connessione da altri paesi”. Il problema di fondo, comunque, è morale: “Noi possiamo anche chiedere leggi più restrittive su Internet, ma se noi, culturalmente, continuiamo a essere portatori di questo disvalore di civiltà, quale è la totale libertà di Internet, non c’è soluzione. Nella vita reale sappiamo che ad ogni azione corrisponde una precisa responsabilità. Tutte le volte che si trasferisce questo concetto nel mondo di Internet, inevitabilmente qualche guru della rete grida alla censura”.
Fra tutti questi aspetti oscuri passati in rassegna, è proprio il nostro Razzante che ripristina un po’ di ottimismo: “Sono sì preoccupato, ma fondamentalmente ottimista, perché consapevole dei progressi che sono stati fatti. Tre anni fa, ad esempio, la normativa sulla privacy era molto diversa, ora con il Gdpr, una conquista della civiltà giuridica, sono stati posti dei paletti in difesa della persona e della sua dignità”. Più che tante nuove regole, serve “tanta educazione digitale, tanta cultura digitale e poi tanta auto-tutela degli utenti. A volte siamo noi stessi che ci scaviamo la fossa da soli, pubblicando contenuti di cui ci pentiamo. Questa auto-disciplina, questa consapevolezza va introdotta nelle scuole dell’obbligo, va insegnata a tutte le età: sapere che Internet schiude opportunità immense, ma anche rischi altrettanto immensi”.
Resta comunque aperto un altro fronte, se si vuole il rovescio della medaglia di quel che si è detto finora: è vero che si deve tutelare la persona dal giornalista/utente che la diffama, ma anche i giornalisti subiscono le loro gogne quotidiane. E nonostante la libertà della rete, rischiano il linciaggio, l’ostracismo, la censura di chi non ammette opinioni fuori dal coro, di chi è pronto a sporgere querele per un parere che non condivide, o a bollare come fake news ciò che non è in linea con la sua ideologia. Quando Facebook stesso si trasforma sempre più spesso in un censore, quando partiti e regimi, come quello cinese, esigono la violazione della privacy degli utenti, anche la libertà dei giornalisti di esprimersi liberamente (e di dire la verità senza autocensure), dovrebbe essere preservata nel nuovo mondo digitale.