La paura del Covid mascherata da prudenza
Adottare comportamenti che bisognerebbe definire compulsivi è diventato sinonimo di virtù: perciò la prudenza è stata svalutata nel suo significato, divenendo la copertura delle nostre più o meno giustificate paure, mentre essa è la capacità di raggiungere con mezzi adeguati il Bene sommo che non è certo la salute fisica.
Bisogna essere prudenti. La prudenza non è mai abbastanza. È con espressioni simili che oggi, di fronte alla presenza del Covid-19, si giustificano restrizioni progressive della vita degli uomini, fino ad una nuova più che ventilata chiusura generale. Adottare comportamenti che bisognerebbe, a onor del vero, definire compulsivi, è diventato sinonimo di virtù e chi non concorda o perfino vi si oppone è persona imprudente, da bandire dalla società e dal pubblico dibattito; insomma uno di quelli che, nelle diverse rivoluzioni dittatoriali della storia recente, veniva definito “nemico del popolo”.
La prudenza ha subito la stessa sorte delle altre virtù: il suo termine inflazionato, a causa di quell’istinto con cui l’uomo ama mettere a tacere la propria coscienza (affermando che il male è un altro modo di vedere il bene), è stato infine svalutato nel suo significato. E così la prudenza ha finito per diventare la copertura delle nostre più o meno giustificate paure e la maschera dell’ipocrisia. Il Catechismo della Chiesa cattolica ci mette in guardia da questa adulterazione: la prudenza «non si confonde con la timidezza o la paura, né con la doppiezza o la dissimulazione. È detta “auriga virtutum – cocchiere delle virtù”: essa dirige le altre virtù indicando loro regola e misura. È la prudenza che guida immediatamente il giudizio di coscienza». Insomma, l’uomo prudente deve avere “attributi”: non continua a scappare, non si chiude in casa per evitare il problema, ma lo affronta con coraggio e intelligenza.
Lo stesso paragrafo del Catechismo spiega che la prudenza «è la virtù che dispone la ragione pratica a discernere in ogni circostanza il nostro vero bene e a scegliere i mezzi adeguati per compierlo. [...] Grazie alla virtù della prudenza applichiamo i principi morali ai casi particolari senza sbagliare e superiamo i dubbi sul bene da compiere e sul male da evitare».
Bene e male. Non spetta alla prudenza conoscerli speculativamente, ma riconoscerli nel singolare e disporre i mezzi adeguati per raggiungere quel bene ed evitare quel male. Intelligenti pauca; difficile dunque poter parlare di prudenza quando si è perso di vista chi è l’uomo e qual è il suo fine. Già san Tommaso, riprendendo l’Etica di Aristotele, affermava senza mezzi termini che i peccatori non sono prudenti. La ragione è semplice: chi non è buono non è orientato al bene e dunque la prudenza che egli esercita è adulterata. Nell’art. 13 della II-II, Tommaso spiega infatti che esistono tre tipi di prudenza. La prima, falsa, è quella di chi utilizza i mezzi adeguati per raggiungere un fine cattivo; è la sinistra e astuta scaltrezza, per esempio, del ladro o dell’assassino, che dispongono tutto a puntino per raggiungere il loro fine iniquo. Poi c’è la prudenza imperfetta, che non guarda al fine della vita dell’uomo, ma solamente ad un suo aspetto: l’alpinista che prende tutti i mezzi per raggiungere la vetta, o il commerciante per guadagnare. Oppure la prudenza può essere imperfetta perché, pur mantenendo il fine universale, è inefficace nel comandare.
Infine, la prudenza vera e perfetta - spiega san Tommaso - è quella che «delibera, giudica e comanda rettamente le cose ordinate al fine di tutta la vita. E questa soltanto viene detta prudenza in senso assoluto. E non può trovarsi nei peccatori». E distingue: «Il primo tipo di prudenza si trova solo nei peccatori. Invece la prudenza imperfetta è comune ai buoni e ai cattivi: specialmente quella che è imperfetta perché volta a un fine particolare. Infatti quella che è imperfetta per mancanza dell’atto principale è anch’essa soltanto nei cattivi».
Tornare ai grandi maestri è un ottimo esercizio per mantenere la lucidità in questi tempi di isteria e confusione. E’ evidente che quando ci troviamo di fronte a misure che riducono l’uomo alla sua dimensione biologica e il fine della vita alla sopravvivenza dal covid - ed oggi anche meno: al semplice scampare alla positività - siamo totalmente fuori dall’orizzonte della vera e perfetta prudenza. Questa dichiarata pandemia sta finalmente mettendo in luce il riduzionismo antropologico del nostro tempo, con le sue pesanti conseguenze che arrivano a presentare il conto a tutti. Potremo andare avanti ancora per un po’ a pensare che l’importante è salvare la pelle, ma già l’edificio della vita economica, sociale, psicologica inizia a far sentire lo scricchiolio della sua usura e di un prossimo drammatico crollo.
Ordinanze che proibiscono le relazioni sociali; che dispongono che l’homo ludens sia soddisfatto, permettendogli di andare a vedere una partita di calcio, mentre mortificano l’homo sapiens, impedendo la realizzazione di convegni; che trattano il culto a Dio e la vita religiosa pubblica alla stregua di attività ricreative. Tutto questo dice la riduzione del fine dell’uomo, e la sua manipolazione da parte del tecno-scientismo, fondamento di una falsa e imperfetta prudenza, che risponde ai nocivi principi del nuovo umanesimo, tanto sventolato dal Presidente del Consiglio; un umanesimo che altro non è se non l’opera di seduzione della bestia che sale dalla terra (cf. Ap 13, 11-18) e la realizzazione della predicazione del falso profeta (cf. Ap 16, 13; 19, 20; 20, 10).
Che si creda o no alla Rivelazione, oggi ci troviamo di fronte ad una evidente riduzione dell’uomo, spacciata come l’unica vera antropologia oggettiva, perché constatabile (e manipolabile) dalla scienza. Esattamente dieci anni fa, Benedetto XVI, intervenendo alla Westminster Hall, faceva presente che il problema del bene comune e dunque la questione della verità sul mondo e sull’uomo non è rinviabile all’infinito: «Ogni generazione, mentre cerca di promuovere il bene comune, deve chiedersi sempre di nuovo: quali sono le esigenze che i governi possono ragionevolmente imporre ai propri cittadini, e fin dove esse possono estendersi? A quale autorità ci si può appellare per risolvere i dilemmi morali? Queste questioni ci portano direttamente ai fondamenti etici del discorso civile. Se i principi morali che sostengono il processo democratico non si fondano, a loro volta, su nient’altro di più solido che sul consenso sociale, allora la fragilità del processo si mostra in tutta la sua evidenza. Qui si trova la reale sfida per la democrazia».
Ogni crisi, che sia finanziaria, sanitaria, sociale è un campanello d’allarme per richiamare gli uomini al fondamento, per fermare la loro fuga dietro a mere soluzioni pragmatiche temporanee. E la fede cristiana è lì per impedire agli uomini di continuare ad evitare la domanda fondamentale o di dare a questa domanda risposte pericolosamente riduttive: «Senza il correttivo fornito dalla religione, infatti, anche la ragione può cadere preda di distorsioni, come avviene quando essa è manipolata dall’ideologia, o applicata in un modo parziale, che non tiene conto pienamente della dignità della persona umana. Fu questo uso distorto della ragione, in fin dei conti, che diede origine al commercio degli schiavi e poi a molti altri mali sociali, non da ultimo le ideologie totalitarie del ventesimo secolo».
Ogni totalitarismo ha sete di questa distorsione della recta ratio: mantenere ben vivo il panico da Covid spinge l’uomo non solo ad accettare, ma persino a desiderare di essere considerato come una mera macchina biologica da mantenere in vita. Ogni diritto umano si sta ormai risolvendo nell’unico “diritto” ammesso, quello alla salute. Il diritto perfetto della prossima dittatura sanitaria.