La Nato trasloca, i russi pronti a tornare in Afghanistan
A 25 anni dal ritiro sovietico e a 13 dall’operazione Enduring Freedom che lo liberò dal regime talebano, l’Afghanistan potrebbe tornare presto sotto l’influenza di Mosca non tanto per una scelta politico strategica quanto per la necessità di Kabul di garantirsi un alleato solido e meno ambiguo degli Stati Uniti contro i talebani.
A 25 anni dal ritiro sovietico e a 13 dall’operazione Enduring Freedom che lo liberò dal regime talebano, l’Afghanistan potrebbe tornare presto sotto l’influenza di Mosca non tanto per una scelta politico strategica quanto per la necessità di Kabul di garantirsi un alleato solido e meno ambiguo degli Stati Uniti nella lotta contro i talebani e al-Qaeda quando anche gli ultimi militari della Nato avranno fatto fagotto.
La Russia è pronta ad «aiutare l'Afghanistan in caso di destabilizzazione della situazione dopo il ritiro delle forze internazionali», ha dichiarato venerdì il presidente russo Vladimir Putin in un incontro a Novo Ogariovo con i membri dell'assemblea parlamentare dell'Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva, di cui fanno parte Mosca, alcuni suoi alleati (inclusi Paesi ex sovietici dell'Asia centrale) e un rappresentante di Kabul. «Comprendiamo che la situazione non sarà facile dopo il ritiro del contingente internazionale. Se necessario», ha detto il leader del Cremlino, «siamo pronti a dare una mano ai nostri amici afghani in modo che la situazione in quel Paese rimanga stabile e ci siano prospettive di sviluppo».
L’intervento del presidente russo conferma le preoccupazioni di Mosca e delle Repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale già emerse negli ultimi anni in summit politici e in incontri e conferenze in cui i principali think-tank russi hanno evidenziato il rischio che il ritiro della Nato possa consentire alle forze islamiste di minacciare la stabilità di Tagikistan, Uzbekistan, Kirghizistan e Turkmenistan. Repubbliche ricchissime di gas e petrolio, ma del tutto impreparate sul piano militare a fronteggiare insurrezioni di matrice jihadista.
In prospettiva per Mosca è più conveniente sostenere il governo di Kabul perché contrasti con efficacia i talebani in casa piuttosto che dover fronteggiare il dilagare delle insurrezioni islamiche nelle ex Repubbliche sovietiche che deriverebbe dal ritorno del regime talebano in Afghanistan. Del resto, le possibilità che gli alleati occidentali continuino a giocare un ruolo militare efficace nel Paese sono piuttosto scarse e al di là delle dichiarazioni ufficiali e degli accordi per mantenere 12.500 istruttori e consiglieri militari (9.800 dei quali statunitensi) in cinque grandi basi afghane nei prossimi due anni non offrono certo garanzie di stabilità. La dimostrazione che in Occidente nessuno crede che le truppe di Kabul potranno cavarsela da sole in combattimento va cercata nei dettagli, non nei documenti ufficiali. Nei giorni scorsi le truppe anglo-americane hanno lasciato la turbolenta provincia meridionale di Helmand dove sono caduti il 25 % dei militari alleati morti in 13 anni di guerra afghana e, come ha sottolineato il Daily Mail, le truppe di Sua Maestà hanno cancellato ogni traccia della loro presenza smantellando persino i monumenti eretti per ricordare i 453 caduti britannici per evitare che possano venire dissacrati.
Il neo segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, giunto a Kabul il 5 novembre ha parlato di un nuovo capitolo nei rapporti con Kabul con l’avvio della missione addestrativa “Resolute Support” rivendicando il ruolo di aver creato forze di sicurezza nazionali competenti. «Con il prossimo anno si aprirà un nuovo capitolo. Il futuro dell'Afghanistan è nelle mani degli afghani. Ma continua il nostro sostegno», ha detto Stoltenberg durante una conferenza stampa congiunta a Kabul con il presidente afghano Ashraf Ghani. «La Nato è impegnata a sostenerci con l'addestramento e l'equipaggiamento delle forze afghane», ha sottolineato Ghani, ricordando l'impegno dell'Alleanza a sostegno del Paese oltre il 2014. Un impegno che è anche finanziario con la promessa di fornire 4,1 miliardi di dollari annui (per metà a carico degli Stati Uniti) per sostenere e pagare gli stipendi ai 350 mila militari e poliziotti mentre sul piano operativo aerei ed elicotteri alleati dovrebbero continuare a fornire appoggio dal cielo alle truppe di Kabul fino al 2016, quando le forze aeree afghane dovrebbero disporre di unità aeree da combattimento.
In realtà, la tenuta delle forze afghane non è per nulla garantita specie per quanto riguarda la polizia, inferiore all’esercito per addestramento ed equipaggiamento. Inoltre i talebani hanno infiltrato molti comandi e reparti governativi come conferma l’attentato suicida di ieri mattina al quartier generale della polizia a Kabul. Un kamikaze è penetrato nell’edificio riuscendo a eludere i controlli fino a raggiungere gli uffici del capo della polizia di Kabul, generale Zahir Zahir. L’attentatore si è fatto saltare in aria uccidendo uno dei più stretti collaboratori del generale.
«Le forze regolari afgane, sempre più spesso bersaglio delle milizie talebane progressivamente col ritiro delle truppe della Nato, non potranno garantire la sicurezza del Paese se il tasso di mortalità fra le truppe si manterrà a un livello così elevato», ha dichiarato venerdì il generale Jospeh Anderson, alla testa del comando operativo alleato (Isaf Joint Command). Il numero di soldati e poliziotti uccisi nel 2014 è aumentato del 6,5% rispetto all'anno scorso salendo a 4.634 morti in combattimento dall'inizio di gennaio contro i 4.350 dell’anno scorso e a dispetto di un calo del 25 per cento degli attacchi talebani, scesi da 24 mila nel 29013 a 18mila. In pratica le perdite tra i soldati afghani in 10 mesi di quest’anno sono state oltre il doppio dei 2.300 militari statunitensi caduti in Afghanistan dal 2001 a oggi.
I militari afgani, che quest’anno hanno effettuato in autonomia ben 940 operazioni contro i talebani, cominciano a trarre beneficio dai nuovi equipaggiamenti e dalle nuove tattiche, specie contro gli ordigni esplosivi collocati sul ciglio delle strade, «ma il tasso di perdite deve assolutamente scendere poiché non è sostenibile a lungo termine», ha avvertito Anderson, consapevole del fatto che l’aumento delle perdite in combattimento comporta un repentino incremento delle diserzioni nei ranghi di forze di sicurezze composte per lo più da reclute motivate più dallo stipendio che dalla volontà di combattere i talebani. È tuttavia improbabile che questo accada. Senza le truppe della Nato sul terreno i talebani stanno dilagando in tutto il Paese portando attacchi massicci con l’impiego di centinaia di miliziani per volta come non facevano dall’offensiva estiva a Helmand del 2006.
Gli alleati hanno progressivamente evacuato quasi 110 mila dei 140 mila soldati schierati nel Paese rimpatriando, cedendo agli afghani e ad altri alleati o distruggendo in loco 21 mila veicoli e 1,7 milioni di pezzi di equipaggiamento. Per questo il ruolo che gli ex invasori russi potranno giocare per sostenere le forze di Kabul può essere di grande rilievo. Già oggi i russi sono i maggiori fornitori di armi a Kabul, inclusi una settantina di elicotteri da attacco e trasporto il cui acquisto è stato finanziato dal Pentagono, e in futuro potranno contribuire con armi, istruttori e consiglieri militari. Le stesse ragioni strategiche che incoraggiano Mosca a “tornare” a immischiarsi nei fatti afghani sono all’origine dei sempre più stretti rapporti intrecciati anche con la Cina che già gestisce alcune concessioni minerarie in Afghanistan e ha recentemente donato 200 milioni di dollari di aiuti economici. Già alle prese con l’insurrezione degli uighuri, popolazione musulmana del Sinkiang, Pechino non può accettare che l’Afghanistan torni a essere la centrale operativa del jihadismo in Asia Centrale.
Allo stesso tempo non può sfuggire la considerazione che le difficoltà create a Russia e Cina dall’attuale ritiro statunitense dall’Afghanistan potrebbero rappresentare una delle cause, o almeno una conseguenza non certo sgradita a Washington, del ritiro stesso. Meglio non dimenticare che fu proprio Barack Obama, nel 2010, a vanificare lo sforzo militare alleato contro i talebani annunciando, contemporaneamente all’invio di rinforzi, il prossimo ritiro delle truppe alleate. Un annuncio che ha indotto i talebani a respingere ogni ipotesi di dialogo e ad attendere il ritiro della Nato per riprendere l’offensiva.