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ORA DI DOTTRINA / 100 – Il supplemento

La lotta per le investiture e la fortezza di san Gregorio VII

Con san Pier Damiani, Ildebrando di Soana divenne uno dei più importanti fautori della riforma. Eletto Papa, con il nome di Gregorio VII, combatté l’immoralità del clero. E contribuì a spezzare la commistione tra potere religioso e temporale.

Catechismo 21_01_2024
Canossa_san Gregorio VII ed Enrico IV

L’azione di san Pier Damiani (vedi qui) per cercare di promuovere una riforma che liberasse la Chiesa dalla peste dei peccati sessuali e contro natura nel clero, nonché del commercio delle cariche ecclesiastiche, aveva immesso nella vita della Chiesa dell’XI secolo uno scossone salutare. Ancor più incisiva è stata la paziente e nascosta formazione di monaci, che sarebbero poi stati scelti per diventare vescovi degni di questo nome (da epískopos, chi guarda/vigila dall’alto).

Ildebrando di Soana (1015 ca - 1085) aveva seguito Gregorio VI in esilio a Colonia, dopo che questi aveva rinunciato al munus petrino per le disposizioni del Sinodo di Sutri. Lì è molto probabile che divenne monaco, per poi tornare a Roma con l’elezione di Leone IX (1002-1054), che lo ordinò diacono; e qui rimase a servizio di molti pontefici. Alessandro II lo creò cardinale diacono e, con san Pier Damiani, divenne uno dei più importanti fautori della riforma. Eletto pontefice il 22 aprile 1073 con il nome di Gregorio VII, entrò subito in modo deciso e concreto nel problema, emanando quattro decreti contro la simonia e l’immoralità del clero, la cui efficacia venne rafforzata proibendo a tutti i fedeli di ricevere i sacramenti o assistere alle Messe celebrate dai chierici colpevoli di queste colpe.

All’azione del grande monaco di Fonte Avellana era mancata una più chiara consapevolezza che, alla radice di molti mali, vi era una troppo stretta commistione tra il potere temporale, con le sue logiche, dinamiche e debolezze, e il potere religioso. A questo pose mano san Gregorio VII, che aveva ben conosciuto questo connubio letale negli anni di servizio alla Sede Apostolica.

Non bisogna però commettere l’errore di considerare che questa commistione fosse il semplice effetto della brama di potere e prestigio da parte dei pastori della Chiesa. Almeno non all’inizio. In realtà, i continui attacchi sul territorio europeo da parte dei Magiari da est, dei Normanni da nord, e dei Saraceni musulmani da sud aveva portato ad una più stretta relazione tra quanti cercavano la difesa da parte di uomini armati e coloro che potevano offrirla. Quella struttura sociale che va sotto il nome di feudalesimo trova la sua spiegazione anche sotto questo punto di vista. Ora, tra i più disarmati, nel senso letterale del termine, c’erano proprio i religiosi e gli ecclesiastici, ai quali pertanto non restava che cercare protezione nell’emergente oligarchia guerriera. Questo però comportava fedeltà, subordinazione e dipendenza, che, nel caso di vescovi e abati, divenne presto molto problematica. Nel cerimoniale della presa di possesso del vescovo dei territori su cui si estendeva la sua giurisdizione o dell’abate sulla sua abbazia, era il signore del luogo a consegnare sia la spada, segno del potere secolare, che l’anello e il pastorale, simboli invece del potere spirituale, mentre il vescovo giurava fedeltà al suo signore.

L’esito di questo legame troppo stretto non poteva che essere esiziale. Il monaco benedettino Guiberto di Nogent (1055-1124), nella sua autobiografia De vita sua sive monodiarum suarum libri tres, riportava un’espressione del vescovo Manasse di Reims, eloquente attestazione di come ormai molti pastori concepissero il proprio ministero: «Essere arcivescovo sarebbe una bella cosa, se non si fosse obbligati a cantare la Messa». Per la cronaca, Manasse fu deposto da Gregorio VII nel 1080.

Rafforzati i diritti della Sede Apostolica con i 27 enunciati del famoso Dictatus Papæ (1075), Gregorio combatté con tutte le sue forze per la liberazione della Chiesa dalle interferenze del potere secolare. E il Signore gli diede al riguardo una singolare e inattesa opportunità. Nonostante la proibizione, già imposta da papa Nicola II (980 ca - 1061), e poi ribadita a più riprese da Gregorio VII, di conferire un’investitura ai vescovi da parte del potere secolare, Enrico IV di Franconia (1050-1106), re dei Romani e futuro imperatore, non voleva saperne di perdere queste sue prerogative. Papa Gregorio si trovava ad un punto decisivo non solo della sua vita personale, ma anche e soprattutto dell’esistenza della Chiesa: se si fosse piegato al sovrano, gli sforzi intrapresi per la libertà della Chiesa si sarebbero sciolti come neve al sole e la Chiesa sarebbe rimasta alle briglie del potere; ma affrontare Enrico IV significava giungere ad uno scontro con chi deteneva il potere della spada e perire di quella spada.

Gregorio VII scelse la seconda strada; nel febbraio del 1076 scomunicò Enrico IV e sciolse tutti i suoi sudditi dagli obblighi di fedeltà al re. Inaspettatamente, Enrico IV valicò le Alpi in pieno inverno e raggiunse il Papa, che si trovava a Canossa, ospite della grande amica, la Magna Comitissa Matilde (1046-1115). Il fatto è piuttosto noto: il re fu lasciato per qualche giorno al freddo, non solo per penitenza, ma perché Gregorio si trovava in una situazione complicata. I nobili di Germania, infatti, attendevano il Papa per designare di comune accordo il nuovo re; se egli avesse perdonato Enrico IV, gli avesse tolto la scomunica e lo avesse reintegrato nelle prerogative regali, i nobili avrebbero potuto pensare ad un accordo privato tra i due e sentirsi quindi gabbati da Gregorio. D’altra parte Gregorio era Papa e cristiano: non poteva non perdonare a chi si mostrava pentito. Mostrò di avere più a cuore il Papa cristiano che non il Pontefice statista. Decise perciò di togliere la scomunica, non senza l’accortezza di non procedere a reintegrarlo nel potere regale.

Il potere secolare era stato ridimensionato, ma Enrico IV non esitò a vendicarsi. Riprese la consuetudine di dare l’investitura ai vescovi, attirandosi, nel 1080, una nuova scomunica. Il re questa volta reagì, dichiarando Gregorio deposto e imponendo come antipapa il vescovo di Ravenna Guiberto, che prese il nome di Clemente III (1025/9-1100). Quindi scese a Roma per farsi incoronare imperatore dall’antipapa, costringendo Gregorio VII a rifugiarsi a Castel Sant’Angelo e a chiamare in soccorso i Normanni, presenti nell’Italia meridionale. E i Normanni di Roberto Guiscardo (1015 ca - 1085) arrivarono, con un consistente numero di truppe saracene: Enrico fu cacciato, ma Roma fu saccheggiata e molta parte della città, secondo alcuni storici circa un terzo, venne divorata dalle fiamme. Gregorio dovette allontanarsi da Roma e riparare a Salerno, da dove scomunicò nuovamente Enrico e tutti coloro che avevano appoggiato la sua intrapresa. Lì morì il 25 maggio 1085, pronunciando parole che rimasero scolpite nella memoria di tutti: «Ho amato la giustizia e odiato l’iniquità. Per questo muoio in esilio».

E fu in effetti un senso acutissimo della giustizia, di fronte all’iniquità dei potenti, a contraddistinguere la sua persona e il suo pontificato. Figlio di un semplice fabbro, di statura molto minuta, Gregorio ebbe una tempra di ferro e una fortezza inflessibile, di cui il Signore lo dotò per affrontare la buona e dura battaglia della liberazione della Sposa di Cristo dai lacci di un potere temporale che stava obiettivamente finendo per soffocarla del tutto.

Il prezzo che Gregorio VII dovette pagare nella lotta per la liberazione della Chiesa e l’affermazione dei suoi diritti fu altissimo, ma fu il prezzo della Croce che redime, non quello della riprovazione divina. Fu questa strenua e sofferta fermezza che portò al Concordato di Worms (1122), nel quale l’imperatore Enrico V (1081-1125) e papa Callisto II (1065-1124) concordarono finalmente che le insegne spirituali dovevano essere conferite dall’autorità ecclesiastica e non da quella secolare. Con tutto quello che questo comportava. La Sede Apostolica, nonostante l’apparente sconfitta terrena di Gregorio, acquistò in verità una forza e un’autorità senza precedenti, a servizio della Chiesa, che divenne manifesta con il pontificato di Innocenzo III (1161-1216).



ORA DI DOTTRINA / 99 – Il supplemento

San Pier Damiani e la denuncia dell’omosessualità nel clero

14_01_2024 Luisella Scrosati

Grande riformatore ed eremita, Pier Damiani denunciò piaghe come la simonia e l’omosessualità nel clero. Ma il suo Liber Gomorrhianus risultò scomodo anche ai papi che erano d’accordo con lui, probabilmente perché sentivano la pressione dei chierici sodomiti.