La loro forza è nella morte per Allah. E la nostra?
Siamo in guerra. Per l'Isis morire in battaglia, farsi esplodere come kamikaze o cadere in uno scontro con la polizia è il martirio, che assicura la gloria in Terra e il paradiso in Cielo. Noi, invece, consideriamo la morte in battaglia inaccettabile. Questo è il nostro grande problema.
ARMI, DROGA, PETROLIO: ECCO CHI E COME FINANZIA L'ISIS di Gianandrea Gaiani
Siamo in guerra: lo ha detto anche un pacifista socialista come il presidente francese Hollande, un classico esempio di utopista aggredito all'improvviso dalla realtà. In questa guerra l'Occidente ha le migliori armi e la migliore tecnologia. Ma può perdere, perché gli manca l'essenziale: una spiritualità della guerra. L'Isis non ama Osama bin Laden, ma le sue pubblicazioni ne ripetono il teorema, espresso in una sfida all'Occidente: vinceremo noi, perché voi amate la vita e noi amiamo la morte.
Per al-Qa'ida o per l'Isis morire in battaglia, farsi esplodere come terroristi suicidi o cadere in uno scontro con la polizia è una forma di martirio, che assicura la gloria in Terra e il paradiso in Cielo. L'Occidente moderno considera la morte in battaglia inaccettabile. Tutti i governi democratici cercano di fare la guerra con la sola aviazione, o meglio ancora con i droni senza piloti, perché sanno che un intervento militare di terra comporterebbe dei caduti. E soldati che tornassero in patria in una bara avvolta da una bandiera nazionale farebbero perdere le elezioni al governo che li avesse mandati a combattere in terre lontane.
A una giornalista, peraltro brava e preparata, ho spiegato giorni fa in un'intervista che la scelta per l'Occidente non è più fra l'avere o non avere morti ammazzati. È la scelta su chi dovrà morire: i soldati sul campo o i civili che vanno a cena in un ristorante, a una partita di calcio o ad ascoltare musica in un teatro. Qualcuno morirà comunque, è qualche mamma piangerà. La reazione della giornalista è stata tipica: «Ma anche i soldati hanno una mamma». Sì, anche i soldati hanno una mamma, ma hanno scelto una professione nobilissima, la cui grandezza sta precisamente nella disponibilità a sacrificare la propria vita per proteggere le vite degli altri. Questa caratteristica essenziale dello spirito militare rischia oggi di andare perduta. La stessa propaganda televisiva che incita ad arruolarsi negli eserciti mostra i militari che costruiscono scuole, portano medicinali negli ospedali del Terzo Mondo e cibo ai bambini poveri. Tutte cose bellissime e utilissime, ci mancherebbe altro. Ma stiamo scambiando i militari per il dottor Schweitzer o per i missionari. I militari non sono questo, o per lo meno non sono solo questo. La loro missione comporta affrontare la morte, e anche dare la morte in battaglia, con lealtà e senza odio.
No, non ci mancano le armi, la tecnologia, gli analisti, gli strateghi. E non è neppure l'amore per la vita a ostacolarci: anzi, quella è la nostra forza, e l'amore per la morte di cui parlava bin Laden è soltanto una caricatura del vero spirito militare. Ma lo spirito militare è diventato merce rara. Non da ieri: nella sua classica opera «Rivoluzione e Contro-Rivoluzione» il pensatore cattolico brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira vedeva nel venir meno di questo spirito una caratteristica saliente del processo di abbandono del cristianesimo che chiamava Rivoluzione. La divisa militare, scriveva, «con la sua semplice presenza, afferma implicitamente alcune verità, a quanto generiche, ma per certo di natura contro-rivoluzionaria. L'esistenza di valori superiori alla vita e per i quali si deve morire», il che è contrario alla mentalità moderna, «tutta fatta di orrore per il rischio e per il dolore, d'adorazione della sicurezza e di grandissimo attaccamento alla vita terrena. L'esistenza d'una morale, perché la condizione militare è totalmente fondata su ideali d'onore, di forza posta al servizio del bene e rivolta contro il male e così via».
Non bisogna confondere forza e violenza. La violenza è intrinsecamente sovversiva e immorale, perché non opera al servizio dell'ordine ma per sovvertirlo. La forza, dopo il peccato originale, è necessaria e legittima. Difende il debole mettendo l'aggressore in condizione di non nuocere, se necessario dando la morte e affrontando la morte. Salvarsi la vita non è il valore supremo, altrimenti le migliaia di martiri che la Chiesa ha canonizzato avrebbero semplicemente sbagliato. E la Chiesa non ha canonizzato solo i martiri. Nel 2012 la casa editrice della Santa Sede, la Libreria Editrice Vaticana, ha pubblicato un bello studio della storica Geraldina Boni, «La canonizzazione dei santi combattenti nella storia della Chiesa». Il libro mostra come la Chiesa ha canonizzato qualche centinaio di militari, che hanno combattuto, hanno dato la morte e qualche volta sono morti in battaglia.
È avvenuto anche di recente. Il 26 aprile 2009 Benedetto XVI ha canonizzato San Nuno Alvares Pereira, morto nel 1431 e figura decisiva per l'indipendenza del Portogallo dalla Spagna. San Nuno era un generale, combatté contro gli spagnoli e contro i mori, sempre in prima linea. Anche se la cifra tradizionale di cinquemila persone che San Nuno avrebbe personalmente ucciso in battaglia è probabilmente esagerata, certamente il santo diede la morte a molti nemici. Passò gli ultimi anni di vita in un convento, ma di lì continuò a far giungere consigli ai portoghesi su come fare la guerra. Nel l'omelia della canonizzazione, Benedetto XVI chiarì che San Nuno non era stato canonizzato «nonostante» fosse stato un militare, avesse combattuto e avesse ucciso nemici, ma perché era stato un buon militare, e un militare santo.
Eppure già allora qualcuno si scandalizzò, anche nella Chiesa, per questa canonizzazione. Perché a molti sembra che chi uccide nemici in battaglia non possa essere un santo ma solo un assassino. Non è così, e le canonizzazioni dei santi combattenti lo confermano. C'è una vera spiritualità della vita militare e della guerra. Una spiritualità che non ama la guerra, non la cerca, preferisce la pace. Una spiritualità che non odia i nemici, sa che sono anche loro figli di Dio e fratelli in Cristo, eppure assume la necessità di combatterli lealmente come una croce e una dolorosa missione. È la stessa spiritualità dei poliziotti e dei carabinieri, che portano le armi e qualche volta devono usarle per proteggere gli onesti contro i malviventi, dei giudici che devono pronunciare severe condanne e qualche volta - lo sappiamo bene in Italia - rischiano anche loro di pagare con la vita.
È la spiritualità dell'eroismo, e l'eroismo consiste precisamente nel sapere che ci sono valori per cui vale la pena di combattere e di morire. Se l'Occidente, e anche tanti cristiani, hanno perso questa spiritualità, e neppure sono più in grado di capirla, allora bin Laden aveva ragione, e anche l'Isis ha già vinto.