La lobby nera di Fanpage era una fake. Ora chi pagherà?
Ci è voluto più di un anno, ma alla fine si è capito che la famigerata lobby nera della quale fantasticarono i giornalisti di Fanpage non esiste. Lo ha stabilito la Procura di Milano che ha chiesto l'archiviazione per il deputato di FdI Fidanza. Giustizia è fatta, ma resta il fango mediatico.
Ci è voluto più di un anno, ma alla fine si è capito che la famosa lobby nera della quale fantasticarono i giornalisti di Fanpage non esiste. Lo ha stabilito la Procura di Milano, avanzando una richiesta di archiviazione per l'indagine aperta nel 2021. Il caso è nato da un'inchiesta giornalistica di quella testata, che mise nel mirino otto indagati accusati di finanziamento illecito e riciclaggio. Tra questi l’eurodeputato di Fratelli d’Italia, Carlo Fidanza.
Un giornalista di Fanpage si era infiltrato per diverso tempo negli ambienti della destra milanese e in particolare di Fratelli d’Italia, fingendosi un imprenditore interessato a finanziare un partito politico per ricevere in cambio vantaggi e favori per la sua impresa. L’obiettivo sarebbe stato infatti quello di scovare un presunto finanziamento illecito ed operazioni di riciclaggio, che andavano a coinvolgere non solo l’eurodeputato di FdI, ma anche altri indagati.
Alcune trasmissioni, soprattutto su La 7 (si pensi in particolare a Piazzapulita di Corrado Formigli), hanno sparso fango mediatico, contravvenendo agli obblighi deontologici connessi all’esercizio della professione giornalistica, in particolare la verifica delle fonti, l’approfondimento dei particolari della notizia attraverso l’applicazione della elementare regola del contraddittorio e il rispetto dei diritti della personalità dei protagonisti dei fatti.
Bene fece Giorgia Meloni, come leader di Fratelli d’Italia, a sospendere il giudizio sulla vicenda e a non assumere decisioni affrettate, preferendo aspettare la conclusione delle indagini e dicendosi sempre convinta dell’onestà di Fidanza (“Non caccio nessuno per un aperitivo sbagliato”, disse l’attuale premier quando uscì l’inchiesta di Fanpage).
Il pubblico ministero di Milano, Giovanni Polizzi, ha infatti chiesto al Gip l’archiviazione, in quanto non sussistono le prove per sostenere l’azione dell’accusa. Dalle indagini non sono cioè emersi elementi per sostenere le accuse di finanziamento illecito ai partiti e riciclaggio, alla base dell’apertura dell’inchiesta. In altre parole nei video, se guardati con un bel po di malafede, si potevano rintracciare sospetti di ricorso a finanziamenti illeciti da parte di quei politici, ma a una verifica più attenta non emergeva nulla di penalmente rilevante. Eppure durante le indagini erano state effettuate diverse perquisizioni, che tuttavia non avevano prodotto alcun esito.
Un conto è millantare, sbandierare ai quattro venti, prospettare opportunità, anche solo per ostentare un potere che non c’è, altra cosa è realizzare in concreto un finanziamento illecito.
Se in questo caso la giustizia si è comportata correttamente, bisogna ora riflettere sul ruolo dei media e sull’impatto devastante che inchieste come quella di Fanpage possono avere sulla vita delle persone coinvolte e dei loro famigliari. Archiviata la vicenda in sé, rimane l’uso disinvolto degli strumenti del giornalismo d’inchiesta da parte di alcuni giornalisti. Il codice deontologico in materia di privacy e diritto di cronaca, redatto nel 1998, prevede che l’utilizzo di telecamere nascoste si giustifichi solo a fronte dell’impossibilità di esercitare nella trasparenza la funzione informativa su fatti di interesse pubblico. In altre parole, il giornalista è legittimato a prendersi con le cattive ciò che non potrebbe mai ottenere con le buone, cioè occultando la sua vera identità, a patto che, al termine di questo suo utilizzo di mezzi fraudolenti come le telecamere nascoste, scopra indizi inequivocabili di reato.
Nel qual caso, oltre che denunciare tutto alla Procura, potrebbe anche documentare mediaticamente quanto scoperto in quel modo. Se, però, oltre le parole non si rintracciano elementi di reato (come nel caso della presunta lobby nera) e se lo spionaggio della vita altrui attraverso il buco della serratura concorre a scrivere solo una brutta pagina di voyeurismo e nulla più, senza alcun elemento di effettivo interesse pubblico e senza alcun risvolto sulla vita dei cittadini, il giornalista deve concludere che non ci sono gli estremi della messa in onda e della diffusione di quei materiali e deve astenersi dal divulgarli.
Legittima quindi la soddisfazione dell’eurodeputato Carlo Fidanza, che ha attaccato il mondo dei media affermando: «Dopo le anticipazioni di qualche settimana fa, la Procura di Milano ha richiesto ufficialmente l’archiviazione per me e gli altri indagati nell’inchiesta sulla cosiddetta e inesistente “lobby nera”. Ovviamente non ho mai dubitato che sarebbe finita così, ma oggi finalmente riemergo a testa alta da quella vergognosa montagna di fango mediatico». Fidanza, quando scoppiò la bufera di quell’inchiesta, si autosospese subito dagli incarichi di partito.
I politici sono maggiormente attenzionati dai riflettori mediatici, in virtù della loro responsabilità pubblica, e dunque è da mettere in conto la possibilità che il giornalista commetta errori, spingendosi oltre i limiti del diritto di cronaca. Se, però, come in questo caso, c’è il fondato sospetto che l’inchiesta avesse prevalenti finalità politiche, sarebbe opportuno un intervento del Consiglio di disciplina competente per territorio, affinchè accerti che il lavoro dei giornalisti autori di quell’inchiesta si sia ispirato a lealtà e buona fede, come raccomandato dalla legge istitutiva dell’Ordine dei giornalisti e non sia stato mosso da intenti denigratori e diffamatori.