MISSIONE
La lezione di Beddipally
Andhra Pradesh, 1964: un villaggio di neo-convertiti, distrutto dagli indù, ci insegna la novità del Natale.
Attualità
24_12_2011
In questi giorni, in tutte le chiese del mondo risuona la Buona Notizia che in duemila anni è sempre nuova: a Betlemme di Giuda è nato Gesù, il Messia, il Salvatore del mondo. Una parola di speranza, di ottimismo sul futuro, a tutti noi che viviamo in una situazione di crisi esistenziale, oltre che economica e morale: non sappiamo più perché viviamo, abbiamo perso il senso, il significato della vita. Siamo immersi in un pessimismo che ci angoscia, ci rende tristi, i nostri discorsi, i giornali e telegiornali diffondono questa atmosfera che tende alla morte.
In un libro dell’Antico Testamento, la Sapienza, c’è la profezia poetica del Natale di Gesù: “Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose e la notte era a metà del suo corso, la tua Parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale discese in quella terra maledetta” (Sap 18,14-15). Parole forti e drammatiche. Il profondo silenzio e il buio della notte sono il mondo in cui viviamo, di cui tutti ci lamentiamo. Ecco la Buona Notizia del Natale di Gesù, un lampo nel buio della notte. Dio si è fatto uomo per non lasciarci soli e ha deciso di essere sempre vicino alla nostra miseria per aiutarci.
Oggi dobbiamo ripartire dalla stalla di Betlemme. Il Natale ci invita a ritrovare la fede autentica delle persone semplici, dei pastori che accorrono all’annunzio degli angeli, dei Magi che vengono ad adorare Gesù da una terra lontana.
Nelle missioni, dove oggi nasce la Chiesa, si respira ancora questa atmosfera del primo Natale. Vi racconto uno dei tanti Natali che ho fatto in missione. Nel dicembre 1964 ero in India, nello stato di Andhra Pradesh dove dal 1855 lavorano i missionari del Pime. Un popolo a quel tempo molto povero, che soffriva ogni anno due-tre mesi di autentica carestia fra un raccolto e l’altro. I paria erano ancora pesantemente discriminati nella società indiana (e un po' lo sono anche oggi!): vivevano in villaggetti separati, non potevano frequentare i mercati, i templi, i trasporti pubblici, le scuole. Non potevano sposare persone di casta e soprattutto erano praticamente schiavi dei proprietari di terre e dei saukar, gli strozzini delle campagne indiane, che imprestano riso o rupie col 100 per cento d'interesse annuo.
Oggi l'India ha fatto un buon cammino di sviluppo e di liberazione dei suoi poveri, ma all'inizio degli anni Sessanta le condizioni di vita dei paria erano davvero miserabili. Fra questi poveri l'inizio della redenzione sociale è venuta dalle missioni cristiane, che hanno introdotto la scuola per i paria, l'assistenza sanitaria, hanno creato cooperative, «banche del riso», assistenza legale per i contrasti di terre e varie altre istituzioni di sviluppo. Soprattutto, attraverso il Vangelo, hanno dato ai poveri una coscienza della loro dignità e della necessità di unirsi per ottenere il rispetto dei propri diritti. In queste regioni dell'Andhra Pradesh c'è stato e in parte c'è ancora un movimento di conversione dei paria alla fede cristiana, che rappresenta per loro una crescita sociale e l'ingresso in una comunità rispettata e che aiuta. Naturalmente questa conversione al cristianesimo, che avviene ma per interi villaggi, non è vista bene dagli indù proprietari di terre.
Nel dicembre 1964 ero in visita alla missione di Kammameth e il padre Augusto Colombo di Cantù (Corno) mi aveva preparato il villaggio paria di Beddipally da battezzare. Vi siamo andati un sabato mattino in tre missionari e quattro suore per la cerimonia del Battesimo, preparato da due anni di catecumenato. Il povero villaggio di capanne di paglia e di fango era in festa, i 162 paria raggianti di gioia: danze, canti, pifferi, flauti, tamburelli, festoni di carta colorata alle porte e alle finestre. E poi, naturalmente, il grande pranzo a base di riso e maiale arrostito, nella piazza, nella cappella che serve anche da sala comunitaria e sui prati vicini.
Torniamo a Kammameth la sera, contenti anche noi della cerimonia e della felicità di quei nuovi cristiani. Il pomeriggio del giorno dopo, domenica, giungono da Beddipally tre giovani in pianto: «Venite subito al villaggio», ci dicono, «là è successo il finimondo, ci sono anche feriti e abbiamo perso tutto». Vi andiamo con due jeep e troviamo il villaggio quasi distrutto, la gente piangente e disperata, alcuni feriti e molti acciaccati per le bastonate ricevute.
Era successo questo: gli indù dei villaggi vicini, gente di casta e proprietari terrieri, non avevano visto bene la conversione di Beddipally. Forse c'erano anche altri motivi di rancore, fatto sta che la domenica all'alba sono venuti armati di bastoni e hanno cominciato a bastonare tutti, uomini, donne, vecchi, bambini; poi hanno distrutto numerose capanne e sporcato i muri della cappella-sala comunitaria.
Mentre le suore curavano i feriti e distribuivano i primi aiuti, padre Colombo chiama i capi famiglia e dice loro che il giorno dopo sarebbe andato dal giudice a Kammameth a denunziare l'accaduto. Ma si sente rispondere: «Padre, noi non vogliamo nessuna vendetta. Tu ci hai detto che il Battesimo è il più grande dono di Dio e che la Croce è il segno di chi segue Gesù Cristo. Ecco, noi vogliamo soffrire qualcosa in silenzio per ringraziare Dio del Battesimo. Perciò non andare dal giudice, aiutaci e ricostruiremo tutto noi, ma senza chiedere punizione per i nostri persecutori. Non ci hai detto tu che dobbiamo perdonare le offese ricevute, come ha fatto Gesù?».
Il ricordo di quel giorno ancora mi commuove. Ho pensato tante volte: chissà se noi, cristiani d’Italia, con tutta la nostra scienza e teologia millenaria, avremmo la forza di perdonare come i giovani cristiani di Beddipally! Eppure lo diciamo tutti i giorni: «Perdona a noi i nostri debiti, come noi perdoniamo ai nostri debitori». Ecco la forza del Natale, vissuto come lo vivevano i primi cristiani e ancor oggi lo vivono in tante parti del mondo missionario, dove la Chiesa nasce nella persecuzione.
In Occidente noi cristiani siamo liberi di vivere e praticare la nostra fede, ma abbiamo perso l’entusiasmo della fede e il senso della “Rivoluzione dell’Amore”, portata dal Bambino Gesù nella storia dell’umanità. Auguro a tutti Buon Natale, chiedendo al Bambino di Betlemme di dare anche a noi la Grazia di ricevere lo Spirito Santo che trasformi in senso evangelico tutta la nostra vita.
Nel dicembre 1964 ero in visita alla missione di Kammameth e il padre Augusto Colombo di Cantù (Corno) mi aveva preparato il villaggio paria di Beddipally da battezzare. Vi siamo andati un sabato mattino in tre missionari e quattro suore per la cerimonia del Battesimo, preparato da due anni di catecumenato. Il povero villaggio di capanne di paglia e di fango era in festa, i 162 paria raggianti di gioia: danze, canti, pifferi, flauti, tamburelli, festoni di carta colorata alle porte e alle finestre. E poi, naturalmente, il grande pranzo a base di riso e maiale arrostito, nella piazza, nella cappella che serve anche da sala comunitaria e sui prati vicini.
Torniamo a Kammameth la sera, contenti anche noi della cerimonia e della felicità di quei nuovi cristiani. Il pomeriggio del giorno dopo, domenica, giungono da Beddipally tre giovani in pianto: «Venite subito al villaggio», ci dicono, «là è successo il finimondo, ci sono anche feriti e abbiamo perso tutto». Vi andiamo con due jeep e troviamo il villaggio quasi distrutto, la gente piangente e disperata, alcuni feriti e molti acciaccati per le bastonate ricevute.
Era successo questo: gli indù dei villaggi vicini, gente di casta e proprietari terrieri, non avevano visto bene la conversione di Beddipally. Forse c'erano anche altri motivi di rancore, fatto sta che la domenica all'alba sono venuti armati di bastoni e hanno cominciato a bastonare tutti, uomini, donne, vecchi, bambini; poi hanno distrutto numerose capanne e sporcato i muri della cappella-sala comunitaria.
Mentre le suore curavano i feriti e distribuivano i primi aiuti, padre Colombo chiama i capi famiglia e dice loro che il giorno dopo sarebbe andato dal giudice a Kammameth a denunziare l'accaduto. Ma si sente rispondere: «Padre, noi non vogliamo nessuna vendetta. Tu ci hai detto che il Battesimo è il più grande dono di Dio e che la Croce è il segno di chi segue Gesù Cristo. Ecco, noi vogliamo soffrire qualcosa in silenzio per ringraziare Dio del Battesimo. Perciò non andare dal giudice, aiutaci e ricostruiremo tutto noi, ma senza chiedere punizione per i nostri persecutori. Non ci hai detto tu che dobbiamo perdonare le offese ricevute, come ha fatto Gesù?».
Il ricordo di quel giorno ancora mi commuove. Ho pensato tante volte: chissà se noi, cristiani d’Italia, con tutta la nostra scienza e teologia millenaria, avremmo la forza di perdonare come i giovani cristiani di Beddipally! Eppure lo diciamo tutti i giorni: «Perdona a noi i nostri debiti, come noi perdoniamo ai nostri debitori». Ecco la forza del Natale, vissuto come lo vivevano i primi cristiani e ancor oggi lo vivono in tante parti del mondo missionario, dove la Chiesa nasce nella persecuzione.
In Occidente noi cristiani siamo liberi di vivere e praticare la nostra fede, ma abbiamo perso l’entusiasmo della fede e il senso della “Rivoluzione dell’Amore”, portata dal Bambino Gesù nella storia dell’umanità. Auguro a tutti Buon Natale, chiedendo al Bambino di Betlemme di dare anche a noi la Grazia di ricevere lo Spirito Santo che trasformi in senso evangelico tutta la nostra vita.