Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Santi Filippo e Giacomo il Minore a cura di Ermes Dovico
EDITORIALE

La "guerra santa" contro l'industria

Referendum sulle trivelle, Tempa Rossa, Bagnoli, Ilva: nel corso dell'ultimo decennio non si è fatto che assistere alla graduale chiusura dell'industria italiana. Mentre la stampa cavalca l'onda e lancia l'immagine, lontana dalla realtà, di un paese verde che va in bicicletta. Il tutto appare troppo sospetto e interessato.

Editoriali 08_04_2016
Industria al tramonto

L’imminente referendum a favore della sospensione indiscriminata dell’attività di estrazione e di ricerca di idrocarburi al largo delle coste adriatiche (il cosiddetto referendum “contro le trivelle”) e l’altrettanto indiscriminata campagna di discredito contro l’estrazione di petrolio in Basilicata sullo spunto del caso Tempa Rossa, vengono di nuovo a ricordarci quale sia al fondo il principale ostacolo allo sviluppo del nostro Paese: si tratta della radicale distanza fra la realtà delle cose il suo ordine costituito laico-progressista, che è sostanzialmente di obbedienza nordeuropea.

Nella realtà siamo la seconda economia manifatturiera d’Europa e uno dei primi Paesi manifatturieri del mondo, anche se da qualche anno stiamo perdendo punti; e nella realtà, con 1,6 abitanti per autoveicolo, siamo uno dei Paesi più motorizzati del mondo. Se invece andiamo a vedere l’Italia come ce la fanno raccontare i padroni del vapore della cultura e della comunicazione, ecco entrare in scena un Paese che non c’è: un Paese che gode all’idea di de-industrializzarsi e che vuole andare sempre ed ovunque in treno, in tram e in bicicletta. 

E’ questa una divaricazione in cui c’è qualcosa di schizofrenico, ma anche qualcosa di sospetto. Dall’inizio del corrente decennio, di pari passo con il progressivo ritiro degli Stati Uniti dal Mediterraneo e con il potenziale spostamento verso l’Italia del baricentro dell’Europa, nel nostro Paese hanno preso vigore forze sociali ed economiche le quali giocano a favore della sua deindustrializzazione. Grandi capitali, grandi centrali sindacali, intellighenzjia di sinistra e multinazionali della comunicazione vi s’intrecciano in modo sorprendente ma significativo: si pensi ad esempio al gruppo L’Espresso/la Repubblica, e al gruppo televisivo Sky con tutta la capacità di trascinamento che hanno nell’ambiente giornalistico ed editoriale anche ben al di là dei media che direttamente controllano. Beninteso, non c’è bisogno di pensare ad alcun complotto, ad alcuna segreta stanza da dove un ristrettissimo e segreto gruppo di grandi burattinai tirano i fili di una congiura planetaria. Di cose del genere non c’è oggi alcun bisogno. Sono processi che non implicano alcun puntuale sistema di pilotaggio. Si tratta semplicemente (si fa per dire) di dislocare o riorientare forze di adeguata entità, e poi tutto il resto accade di conseguenza. 

Facciamo qualche esempio: tra il 2010 e il 2011 Sergio Marchionne e John Elkann dicono esplicitamente che “l’Italia deve decidere se vuol continuare a essere un Paese che produce automobili”. Si vedano al riguardo i loro interventi, tuttora accessibili a chiunque grazie a Internet, al Meeting di Rimini rispettivamente del 2010 e del 2011. Dalla stampa non si leva il minimo grido di allarme, né dal proverbiale Palazzo della politica viene il minimo segno di attenzione. Passano pochi anni e la Fiat, assorbita dalla Chrysler, si trasferisce in Olanda e di là parte per l’America lasciando in Italia soltanto alcuni stabilimenti. La docile discrezione con cui la stampa italiana accoglie l’esodo della storica pietra angolare dell’industria manifatturiera del nostro Paese la dice davvero lunga sulla sostanza del potere in Italia. 

A Taranto c’è (o sarebbe meglio dire, c’era) l’Ilva, il maggior centro siderurgico d’Europa, 12 mila dipendenti, il più grande impianto industriale del Mediterraneo. Grazie a un combinarsi di pretese di ogni genere, l’adeguamento del sito e dei suoi impianti a modi di produrre più rispettosi dell’ambiente diventa un’impresa sovrumana fino a provocare il collasso dell’azienda. Il 26 luglio 2012 il governo del tempo tenta di intervenire con un commissario, ma quel giorno stesso un singolo magistrato, il giudice per le indagini preliminari di Taranto, sequestra gli alti forni dell’acciaieria “senza facoltà d’uso” bloccandone così la produzione. Si aggiungerà poi pure il sequestro in quanto “corpi del reato” di prodotti finiti pronti per la consegna. In difesa dell’acciaieria ci si sarebbe attesi che scendessero in campo a testa bassa sia i dipendenti che la stessa città, della quale l’Ilva era di gran lunga la maggiore risorsa economica. Nient’affatto: sindacati e operai, placati dalla cassa integrazione, non battono ciglio e nel 2013 il Comune arriva a convocare un referendum consultivo sulla sorte dell’impianto. Il referendum fallisce perché si reca a votare solo poco meno del 20% degli aventi diritto. Di questi però un po’ più dell’80% vota per la chiusura dell’impianto (forse anche confidando sulla cassa integrazione a vita dei dipendenti). Adesso l’Ilva è in vendita, ma ovviamente non la vuole nessuno, salvo chi sarebbe soltanto interessato a farla a pezzi.

Nel caso infine di Bagnoli, in questi giorni alla ribalta, siamo di fronte alla questione del risanamento di una vastissima area industriale dismessa cui si sarebbe dovuto mettere mano dal 2002, ma dove da allora ad oggi in pratica non si è fatto nulla. Renzi è sceso a Napoli a presiedere un incontro di autorità locali da lui stesso promosso per sbloccare la situazione, ma il sindaco della città non vi ha preso parte per protesta (non è chiaro per protesta contro cosa) mentre manifestanti dei “centri sociali” raccoltisi sul lungomare si scontravano con la polizia.

Dall’inizio del decennio insomma non si cessa di assistere in Italia all’esodo o allo sconquasso di grandi gruppi industriali, all’indebolimento di gruppi bancari e al mancato avvio di importanti operazioni di ricupero e di riuso di siti industriali. Con l’imponente appoggio di… artiglieria della stampa più diffusa, una volta si oppongono i sindacati nazionali storici, un’altra ancora i “verdi”, un’altra dei notabili locali, un’altra non si sa neanche bene chi, ma in fin dei conti il risultato non cambia. Al di là di tutti i motivi immediati e specifici non sarebbe allora il caso di cominciare a pensarci e a tirarne qualche conseguenza? Il pianeta è fertile e l’uomo – che nel mondo non è un intruso bensì la sua unica presenza consapevole e responsabile - può abitarlo non solo senza danno ma anzi con positivo impatto sulla natura. L’ambiente non c’entra, in realtà è in ballo qualcos’altro.