La guerra fra Usa e Cina non è solo commerciale
La guerra commerciale fra Cina e Usa potrebbe entrare in una fase di disgelo con, probabili, prossimi colloqui a novembre. Ma la guerra fredda nel Mar Cinese meridionale, invece, si sta scaldando. Un rapporto del Pentagono lancia l'allarme su nuovi inquietanti sviluppi delle forze cinesi. Pechino smentisce (ma non del tutto).
La guerra commerciale fra Cina e Usa, caratterizzata da reciproche imposizioni di dazi sulle importazioni, potrebbe entrare ben presto in una fase di disgelo. I negoziatori delle due parti hanno tracciato una “road map” che potrebbe portare a un nuovo incontro fra il presidente cinese Xi Jinping e il suo omologo americano Donald Trump entro novembre. Ma un rapporto del Pentagono, pubblicato alla fine della settimana scorsa, rivela che la guerra non è, purtroppo, solo commerciale. Spese militari e sviluppo dei sistemi d’arma cinesi indicano che Pechino si stia preparando seriamente a un confronto militare con gli Stati Uniti nel Pacifico.
L’allarme lanciato dal rapporto del Pentagono si basa soprattutto sulla crescita della spesa militare cinese. Attualmente attestata sull’equivalente di 190 miliardi di dollari, se dovesse procedere di questo ritmo, per il prossimo decennio è destinato a raggiungere i 240 miliardi di dollari. Non è tanto il “quanto”, ma il “come” viene speso. I bombardieri H-6 cinesi, a medio raggio, sono già dotati di una capacità nucleare e nuovi missili da crociera potrebbero ampliarla. Il prossimo bombardiere H-20 lo sarà quasi certamente. Finora i cinesi si sono basati su un deterrente basato a terra, solo molto recentemente anche in mare. Il fatto che rilancino una forza aerea nucleare non è un buon segno, perché può indicare un cambiamento nella dottrina: se finora è sempre stata improntata al “secondo colpo” (rappresaglia dopo un attacco nucleare subito), l’uso dei bombardieri a medio raggio può significare che Pechino voglia acquisire anche una capacità di “primo colpo” in una guerra regionale.
Negli ultimi tre anni, avverte il rapporto, “l’Esercito Popolare di Liberazione (l’esercito della Cina comunista, ndr) ha rapidamente espanso le aree di operazioni dei suoi bombardieri navali, maturando esperienza in aree marittime critiche ed esercitandosi, probabilmente, a colpire bersagli statunitensi e degli alleati”. La notizia è passata in modo molto allarmistico, su tutti i giornali come “I cinesi si preparano a colpire gli Usa”. E qualcuno già si immagina che stiano preparando una nuova Pearl Harbor. Magari anche con armi atomiche. La realtà è molto più sfumata. I cinesi stanno acquisendo la capacità di combattere, eventualmente, un conflitto anche contro gli Stati Uniti, se questi dovessero intervenire in una guerra regionale. Perché le forze armate cinesi sono in grado solo di proiettare potenza su scala regionale, nel Mar Cinese meridionale soprattutto. Ciò che ha preoccupato gli analisti del Pentagono è che, per la prima volta, i bombardieri H-6, dopo aver sorvolato lo stretto di Miyako, fra gli arcipelaghi meridionali nipponici e Taiwan, si sono diretti a Est di Okinawa, sede della più importante base militare statunitense in quelle acque. Altra preoccupazione: i bombardieri si sono esercitati ad atterrare e decollare dalle nuove basi nelle isole Spratly, atolli contesi nel Mar Cinese meridionale. Da quelle basi, potenzialmente, sono in grado di fermare l’imponente traffico commerciale nello stretto della Malacca e penetrare anche nell’Oceano Indiano.
La preoccupazione degli Stati Uniti, insomma, è quella che la Cina possa diventare una potenza navale di prima grandezza, capace di vincere una guerra regionale. E in caso di guerra regionale, chi sarebbero le prime vittime? Taiwan, innanzitutto, l’isola che è nata dalla ritirata del dittatore nazionalista Chiang Kai-shek (sfuggito alla sconfitta inflittagli da Mao) e che è governata da partiti democratici cinesi. E’ l’altra Cina, insomma, che Pechino non ha mai accettato. Tuttora la classifica ufficialmente come una sua “provincia” e non ammette neppure atti simbolici che ne testimonino l’indipendenza. Un secondo nemico è il Vietnam, con cui Pechino contende le isole nel Mar Cinese meridionale. Le Filippine, anche, sono quantomeno rivali per la stessa ragione, anche se con il loro presidente Duterte (un ex comunista) i rapporti sono migliorati. E infine, il Giappone, con cui contende l’egemonia del Pacifico occidentale in generale e le isole Senkaku in particolare. Nel caso la Cina dovesse essere troppo potente, tutti questi paesi, alleati o partner degli Usa, non potrebbero più essere protetti da Washington. Perché il rischio di escalation sarebbe, a quel punto, troppo pericoloso.
L’altro motivo di allarme, per Washington, è lo sviluppo di un aggressivo programma spaziale cinese. Ufficialmente pacifico, volto all’esplorazione e alle comunicazioni, mostra invece tecnologie potenzialmente in grado di distruggere satelliti nemici. E’ soprattutto questo il motivo per cui Trump ha annunciato la prossima creazione di una nuova Arma autonoma delle forze statunitensi dedita esclusivamente alla guerra nello spazio, attualmente distribuita fra esercito, marina e aviazione.
Dalla Cina, dopo due giorni di silenzio, ieri è arrivata la piccata risposta al rapporto del Pentagono, su un editoriale del Global Times. Nell’editoriale il rapporto viene tacciato di allarmismo e di irresponsabilità, volto a creare sentimenti anti-cinesi in un periodo di tensione economica. Quanto alle mire su Taiwan, l’opzione militare viene descritta come “ultima chance”, ma non del tutto esclusa. Una smentita, si dice, è come una notizia data due volte. Specie se a dare la smentita è un regime che non brilla per trasparenza.