La guerra di Obama alle agenzie di Rating
Il presidente americano Obama ha deciso di passare all’offensiva. Ha dato il via infatti a una iniziativa in qualche modo clamorosa: ha dato mandato al Dipartimento della giustizia di chiedere 5 miliardi di dollari di danni a Standard & Poor's.
Il presidente americano Barack Obama ha deciso di passare all’offensiva. Forte del rinnovo del mandato presidenziale ha dato il via nei giorni scorsi a una iniziativa in qualche modo clamorosa: ha dato mandato al Dipartimento della giustizia di chiedere 5 miliardi di dollari di danni all’agenzia di rating Standard & Poor’s per essersi comportata con negligenza nella valutazione del rischio degli strumenti finanziari collegati ai mutui subprime nel 2007.
Chiariamo innanzitutto i termini del problema. Le agenzie di rating sono essenzialmente tre (oltre a S&P ci sono Moody’s e Fitch) e sono colossi americani di natura privata, quotati a Wall Street, che hanno il compito di dare i voti agli strumenti finanziari (e quindi alle società o anche agli Stati che li emettono) in modo da guidare le scelte degli investitori. I voti sono in pratica il rating, la valutazione, e sono espressi con una scala che parte dall’alto con le tre A, per scendere poi a due A, una A, tre B e così via fino a C dove sono i cosiddetti titoli spazzatura, quelli che non danno alcuna affidabilità.
I mutui subprime sono quei finanziamenti immobiliari che le banche e le società specializzate americane hanno concesso con facilità tra il 2000 e il 2008 anche a persone e famiglie che non avevano la razionale possibilità di restituire il capitale e che comunque erano garantiti dai valori crescenti degli immobili. Questi mutui venivano poi indirettamente impacchettati in nuove obbligazioni e vendute sul mercato grazie anche ai timbri di affidabilità concessi dalle agenzie di rating che assegnavano con generosità il voto più alto, la tripla A.
Si è calcolato che nel 2007 circa il 60% di queste obbligazioni, frutto in termini tecnici di “operazioni di cartolarizzazione”, avessero ottenuto il rating AAA, quindi bassissimo rischio, mentre soltanto l’1% delle società emittenti godevano di questa valutazione. Tutto si basava sulla bolla immobiliare.
Fino al 2006 i prezzi degli immobili negli Stati Uniti hanno continuato ad aumentare, anche grazie alle esuberanti capacità del mercato finanziario di concedere prestiti alle famiglie. Ma la tendenza rialzista non poteva continuare e infatti la bolla è scoppiata trascinando nel fallimento piccole e grandi banche (pensiamo a Lehman Brother’s) e costringendo gli Stati e le banche centrali e intervenire con ingenti capitali per tentare di frenare almeno in parte una crisi che tuttavia si è dimostrata devastante.
Le agenzie di rating hanno contributo non tanto a provocare la crisi, ma a creare una situazione di sempre maggiore squilibrio senza lanciare in tempo, come avrebbero dovuto, i segnali di pericolo. E questo anche perché, pur avendo come detto una natura strettamente privata, a queste agenzie è stato affidato un ruolo sempre più “pubblico”: basti pensare che le regole europee sui patrimoni delle banche prevedono che questi siano calcolati tenendo conto delle valutazioni sul rating dei titoli in loro possesso. Di fronte alla delicatezza del problema l’Unione europea è stata tentata dalla possibilità di creare una propria agenzia ma ha presto rinunciato anche per le divergenze d’opinione tra gli Stati. Ma il rating resta comunque una valutazione che non potrà avere mai elementi di assoluta sicurezza.
Sul futuro nessuno può avere garanzie anche se è più che doveroso poter contare sull’affidabilità almeno di chi giudica la realtà presente. E quindi sono necessarie regole di controllo più precise per evitare i problemi che sono sorti negli ultimi anni, in particolare per i conflitti di interesse da una parte e per la mancanza di trasparenza degli strumenti finanziari dall’altra. Per questo la mossa di Obama merita di essere apprezzata. Se sbagliare una previsione può essere umano, farlo per imperizia, superficialità o interesse privato diventa diabolico.
In questi casi è bene che i giudici intervengano e che i legislatori adeguino le regole. Anche perché dietro la decisione del presidente americano c’è sicuramente una preoccupazione dettata da molti segnali che vengono dal mercato, la preoccupazione di cadere in una nuova crisi. Una preoccupazione che dovrebbe valere anche per l’Italia, vista l’evoluzione del caso Monte dei Paschi.