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L'ANALISI

La guerra avanza con la violenza e la menzogna

Dalla legge della Duma che impone con la forza di parlare di "operazione militare speciale" alla violenza brutale delle truppe di occupazione che colpisce obiettivi civili, quanto si vede in questo conflitto va oltre la normale guerra di propaganda. E l'Europa non può far finta di esere stata colta "di sorpresa".

Esteri 18_03_2022

Violenza e menzogna vanno a braccetto e nulla lo dimostra più della folle guerra in Ucraina. E non soltanto nel campo dell’informazione. A iniziare stavolta l’impiego della violenza per l’affermazione della menzogna è stata la legge della Duma, la Camera dei deputati russa, pronta a dare esecuzione alla visione del Capo sulla natura e svolgimento della guerra in Ucraina nonché a imporla come volontà del regime e del suo apparato militare. Si dirà che, naturalmente, l’uno e l’altra non possono non impegnarsi nella “guerra dell’informazione”, ovvero nell’uso della disinformazione attraverso tutti i mezzi disponibili,  dagli haker alle fake news immesse sui social media.

Ma nessuna istituzione é mai giunta ad una negazione così sfacciata dell’evidenza. A definire cioè la guerra, secondo l’affermazione di Vladimir Putin, una “operazione militare speciale” e ad esigere che così, con queste parole, venga da tutti citata e considerata. Per legge. E con dure sanzioni carcerarie per i trasgressori. Di più: ammantando la violenza con l’esaltazione della “missione”, affidata a combattenti “eroi”, di “liberare” parte del “territorio della nazione”: tale vien ritenuta l’Ucraina, non già una nazione indipendente e sovrana, riconosciuta internazionalmente. Liberarla da “drogati, ubriachi e neonazisti”.

Un’imposizione contraria alla verità delle immagini dei luoghi del conflitto – bombardamenti di città e di obiettivi civili e l’esodo, finora, di ormai due milioni di  profughi, donne e bambini in gran parte – che ha reso impossibile il proseguimento del lavoro dei giornalisti stranieri accreditati a Mosca, peraltro da sempre costretti a rispettare i comunicati-stampa del regime (i giornalisti e i conduttori di programmi televisivi russi,  se appena dissenzienti, sono stati prontamente epurati). Con amarezza si sono viste le immagini dello smantellamento delle redazioni di agenzie, e si è saputo del ritiro dei corrispondenti di molte nazioni, fra cui l’Italia.

La violenza brutale del conflitto si è subito manifestata con l’impiego indiscriminato di bombe e missili, ma a determinare l’esodo repentino da città grandi e piccole di donne, bambini, ragazzi, anziani e la costituzione di gruppi armati di volontari – risoluti a opporsi all’invasione militare con ogni mezzo, dagli sbarramenti stradali alle bottiglie incendiarie – è stata soprattutto la memoria di una storia recente, vissuta dai loro genitori. Oggi essi considerano veramente liberatoria l’indipendenza nazionale riconquistata all’implosione dell’impero sovietico, non intendono per nulla rinunciarvi, anzi sono pronti a dar la vita per difenderla.

In effetti hanno il timore di una possibile restaurazione del potere russo, è diffuso il convinto rifiuto di tornare a vivere sotto un regime di falsità e violenze che si reggeva sull’onnipotenza del KGB, un apparato non solo poliziesco ma anche di indottrinamento e di controllo di ogni attività umana, sociale e culturale. Nel KGB Putin aveva avuto un ruolo di responsabilità, di ufficiale operante in Germania (e non ne ha ripudiato, si afferma, lo stile e i metodi). La storia ci dice che si era guadagnata la stima del presidente Eltsin ponendo fine, con memorabili massacri, alla rivolta in Cecenia; e che questo “merito” gli era valsa la chiamata a salvare il traballante tempo post-sovietico. Era il momento che vedeva arricchirsi a dismisura una cerchia di amici privilegiati, gli odierni oligarchi.

Ed era anche il momento in cui Putin avvertiva che la Russia, vincitrice della “guerra patriottica” contro la Germania nazista, era indebolita dalla dissoluzione del Patto di Varsavia e dal ritiro delle sue forze militari, in particolare dai paesi membri europei; dalla demolizione del muro di Berlino e dalla riunificazione tedesca; in definitiva dallo sfaldamento dell’URSS. Personalità a lui vicine sostengono che, una volta consolidato il potere, pensò alla graduale ricostituzione della federazione, se non dell’impero zarista (di Pietro il Grande e di Caterina) o quantomeno all’incorporazione della Bielorussia e dell’Ucraina, divenute repubbliche indipendenti. Specie quando il governo filo-russo di quest’ultimo paese fu rovesciato dalla rivolta filo-europea del 2014, vista come una “minaccia” alla sua sicurezza.  

 A rafforzarlo nella sua determinazione sembra sia stata l’avvertita “decadenza” morale e politica dell’Europa occidentale della quale l’Ucraina intendeva far parte. Tale da apparirgli “irreversibile” per l’insidia crescente ai suoi principi etici e religiosi (cristiano-ortodossi), da sostituire con quelli, sempre più evidenti in Europa, ateisti e gender, dei matrimoni gay e dell’immigrazione incontrollata, della corruzione ai vertici e dell’incapacità di dar vita a un’unione politica e difensiva. Da qui l’idea di una “missione” da intraprendere e guidare. Per la consonanza con questa analisi, senza alcun dubbio grande è stata l’influenza esercitata su Putin dalle idee del filosofo Alexander Dugin. In un’intervista del 2017 questi addirittura auspicò una “restaurazione” europea, un suo salvataggio e “patronato”, con capitale Mosca, erede come Terza Roma della filosofia greca e del patrimonio cristiano.

In quest’ultimo decennio abbiamo soltanto visto il grande potenziamento e ammodernamento delle forze armate russe – e la sua coesistenza con una milizia privata, famigerata per l’esordio in Crimea – che ha consentito a Putin di guidare l’espansione militare della Russia in Medio Oriente e nell’area mediterranea, in Siria e Libia soprattutto; quindi la penetrazione in Africa e il confronto geo-politico mondiale con Stati Uniti e Cina. Senza che l’Europa si rendesse conto della sua asserita “decomposizione”, tale da rifiutare la citazione delle sue origini cristiane e tanto da non saper reagire all’annessione della Crimea se non con parziali sanzioni, peraltro facilmente aggirate.

Ancor di più: nonostante le sollecitazioni di Kiev, l’Unione Europea ha avvolto nel silenzio il “Memorandum di Budapest” del 1994 che impegnava Russia, Cina e le altre tre potenze atomiche occidentali (Stati Uniti, Inghilterra e Francia) al rispetto dell’integrità e sovranità dell’Ucraina violata oltre che in Crimea anche nel Donbass, per ben otto anni terreno della guerra “a bassa intensità”.

Dire che l’Europa sia stata colta “di sorpresa” dalla invasione dell’Ucraina è dunque improprio. Certo nessuno poteva mai pensare allo scatenamento di una guerra totale, a una sfida all’esistenza stessa dell’umanità agitando il ricatto dell’arma atomica. Sia la Commissione di Bruxelles sia i governi dei paesi membri hanno dovuto correggersi e superare esitazioni e riserve: dinanzi alle ammirevoli reazioni degli aggrediti, non hanno potuto continuare a ignorare i loro SOS, voltare loro le spalle.

Le analisi degli errori, incredulità e tergiversazioni del passato e la condanna dell’Assemblea generale dell’ONU con una maggioranza mai vista dei suoi membri e dall’opinione pubblica mondiale, dovrebbero aiutarli a dissuadere Putin dal ricatto dell’arma atomica e a guardare meglio il futuro. Un futuro segnato all’inizio da un cammino di conversione, nel rinnegamento di un mondo senza Dio e della cosiddetta “religione dell’Umanesimo”, alimentato dalla fraternità e solidarietà umana e dalla preghiera di tutti i cristiani, un futuro guidato dalla Regina della Pace.