La Ginestra, un'utopia velleitaria e irrealizzabile
Di fronte al male che ci è stato dato in sorte dalla Natura, l'uomo sbaglia a vagheggiare su un ottimistico progresso o sulle onde di un misticismo romantico. Ciò che resta è aiutarsi gli uni con gli altri.
In una parte della produzione di Leopardi non domina il sentimento della presenza che ci rende lieti, bensì la percezione di un’assenza. Quando questa nota diventa dominante nelle giornate, essa si può tramutare in grido che il senso (l’abbiamo altrove chiamato l’Ideale o Mistero) si manifesti (come già abbiamo visto nella poesia «Alla sua donna») oppure in accesa accusa nei confronti della natura / realtà esterna, colpevoli di esserci nemiche.
Testimonianza emblematica di quest’ultima posizione è il canto «La ginestra», da molti considerato il testamento spirituale di Leopardi. Nel discorso che noi stiamo conducendo, lungi dal poter essere considerato tale, il testo rappresenta in realtà un recedere dall’intuizione geniale che il Recanatese più volte ha avuto nella sua vita, un venir meno della posizione di domanda e di ricerca di una felicità infinita. Testimonia la posizione dell’uomo che, non avendo incontrato l’Ideale o non avendolo riconosciuto, non volendosi comunque arrendere, propone un progetto partorito dalla sua mente: qui sta la differenza tra un ideale che si incontra e un’utopia che è frutto del nostro sogno. «La ginestra» rappresenta un’utopia velleitaria, anche se nobile e dignitosa, ma pur sempre velleitaria.
Nella sua salda organizzazione strutturale, la poesia presenta una duplice valenza filosofica: svolge la funzione di pars destruens e di pars construens, di demistificazione delle falsità e degli errori dei contemporanei e di proposizione di un progetto da realizzare. Cerchiamo di capire meglio questo aspetto. L’autore si scaglia contro l’ottimismo illuminista e scientista ormai trionfante, fiducioso riguardo alla perfettibilità del genere umano (che preluderà al positivismo di metà Ottocento): quell’ottimismo che sostituirà il problema della felicità del singolo con la questione del progresso, ovvero del benessere dell’umanità. Leopardi mostra un’avversione nei confronti del veicolo che divulga questo messaggio superficiale e «progressista»: il giornale o la «gazzetta».
Nel contempo, Leopardi si scaglia anche contro l’ottimismo spiritualista ottocentesco e il misticismo romantico, considerati alquanto superficiali e spesso irragionevoli perché non sanno dare le ragioni del motivo per cui credere ed essere positivi nella vita. Il poeta ad un certo punto irride la presunzione umana di fronte alla vastità dell’universo e il dogma della divinità di Cristo: «Quante volte/ Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro/ Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,/ Per tua cagion, dell’universe cose/ Scender gli autori, e conversar sovente/ Co’ tuoi piacevolmente». Ovvero scrive Leopardi: «Quante volte all’uomo, situato sulla terra, un granello di sabbia in proporzione al cosmo, è piaciuto vagheggiare la bella favola dell’Autore del mondo che è sceso sulla Terra e che è rimasto a conversare amichevolmente con noi uomini». L’attesa, la domanda, la preghiera che il verbo si incarnasse, che il Logos fosse incontrabile (che abbiamo incontrato nel canto «Alla sua donna») si sono tramutate in scettica e cinica derisione della «buona novella» cristiana.
Ora uomo grande e dignitoso è, per Leopardi, colui che riconosce il vero e la condizione esistenziale dell’uomo: «Nobil natura è quella/ Che a sollevar s’ardisce/ Gli occhi mortali incontra/ Al comun fato, e che con franca lingua,/ Nulla al ver detraendo,/ Confessa il mal che ci fu dato in sorte,/ E il basso stato e frale;/ Quella che grande e forte/ Mostra se nel soffrir, né gli odii e l’ire/ Fraterne, ancor più gravi/ D’ogni altro danno, accresce/ Alle miserie sue, l’uomo incolpando/ Del suo dolor, ma dà la colpa a quella/ Che veramente è rea, che de’ mortali/ Madre è di parto e di voler matrigna».
La pars destruens consiste in questa demistificazione delle falsità e delle menzogne. Ma non basta più a Leopardi demolire, togliere i veli delle falsità e mostrare l’inganno. Ora, siamo nel 1836, un anno prima della morte, Leopardi vuole proporre quello che, secondo lui, resta da fare, l’extrema ratio, l’unica possibilità che rimane all’uomo, non già di trovare la felicità vera, ma di attenuare i dolori e le sofferenze che la Natura ha disposto per noi, trattando gli altri come fratelli e porgendo loro l’aiuto: nobile natura è quella che «Tutti fra se confederati estima/ Gli uomini, e tutti abbraccia/ Con vero amor, porgendo/ Valida e pronta ed aspettando aita/ Negli alterni perigli e nelle angosce/ Della guerra comune. Ed alle offese/ Dell’uomo armar la destra, e laccio porre/ Al vicino ed inciampo,/ Stolto crede così qual fora in campo/ Cinto d’oste contraria, in sul più vivo/ Incalzar degli assalti,/ Gl’inimici obbliando, acerbe gare/ Imprender con gli amici,/ E sparger fuga e fulminar col brando/ Infra i propri guerrieri».
Quanta nobiltà e dignità contengono queste parole, quanto stoicismo, quale invito a resistere e a non arrendersi! Nel contempo, quanta inattuabilità del proposito leopardiano che ci invita ad essere più buoni! Di quale tristezza traboccano questi versi! Quale distanza tra la carità cristiana e l’atteggiamento utopistico e resistenziale leopardiano! «Io vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri» disse Cristo; e il discepolo cerca di imitare il Maestro in grazia dell’essere stato amato, del sentirsi amato, in forza di una presenza che riempie la vita con letizia, non perché tutto va già male e l’uomo non aumenta così il male che già ci è toccato in sorte, bensì in forza della certezza di un Destino buono e positivo la cui garanzia risiede nell’aver già sperimentato un di più.
Il sentimento predominante non è la tristezza, ma la letizia, prevale non un dovere morale, ma il riconoscimento di una grazia imprevista che ci ha toccato, grazia talmente sovrabbondante che ci fa desiderare che anche gli altri possano sperimentare questo amore. Solo una lettura molto superficiale potrebbe far avvicinare la posizione leopardiana della «Ginestra» a quella cristiana. Diremo, anzi, che ne «La ginestra» più che altrove Leopardi si è arreso alla possibilità di incontrare l’Ideale: la poesia apparentemente più titanica, quella della ginestra, che resiste sulle sponde del Vesuvio («Qui su l’arida schiena/ Del formidabil monte/ Sterminator Vesevo,/ La qual null’altro allegra arbor né fiore,/ Tuoi cespi solitari intorno spargi,/ Odorata ginestra,/ Contenta dei deserti») è quella dove il desiderio di una felicità piena si è ridotto all’utopia o ideologia, al pensiero e alla proposta.
Allora, per Leopardi, di fronte al male che ci è stato dato in sorte dalla Natura, dinanzi al destino negativo che tocca ognuno di noi e che solo la sciocchezza umana può designare «Magnifiche sorti e progressive», non rimane altro che cercare di «essere più buoni», come i due orfani, protagonisti dell’omonima poesia di Pascoli. Quando non si guarda l’Ideale, quando non si segue qualcuno, rimane uno sforzo umano, dignitoso e magari titanico, ma inutile e improduttivo.