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L'IO E LA CRISI DELLA MODERNITA'/1

La gaia disperazione di un uomo senza Dio

I modelli di "successo" presentati dal circuito mediatico di questi anni, sono persone che si credono autosufficienti e pensano di darsi la felicità da soli. La leggerezza dell’essere è conseguenza dell’incapacità a reggere un rapporto vero con la realtà, che è diventata insopportabile una volta eliminato il Mistero.

Cultura 02_10_2016
Escher, Torre di Babele

Il modo migliore per ripartire, per rialzarci è quello di comprendere quanto ci ha ostacolo nel cammino fino a farci cadere. La metafora del cammino e dell’inciampo può essere utile per spiegare il contesto culturale in cui vive l’uomo contemporaneo. Per avere le chiavi di accesso alla cultura odierna bisogna comprenderne le coordinate e cogliere i passaggi graduali che hanno condotto al cambiamento della visione antropologica cui si assiste oggi. Per questo proponiamo un percorso sull’«Io e la crisi della modernità», perché ciascuno di noi possa non dare per scontate la cultura e la visione dell’uomo che sono imposti dal sistema dominante.

Ogni epoca lascia di sé ai posteri delle vestigia, delle impronte, più o meno riconoscibili, dei veri e propri monumenti nel senso etimologico del termine, cioè qualcosa che possa o che meriti di essere ricordato. Ma, come sappiamo, non tutti i monumenti hanno la stessa durata nel tempo. Vi sono quelli che resistono per centinaia e centinaia di anni alle intemperie e, qualora vengano parzialmente distrutti, sono poi nel tempo recuperati e restaurati, perché anche i posteri vi riconoscono un valore e un pregio. Ci sono monumenti, però, che vivono nello spazio di una generazione o al più di una vita umana, perché vengono distrutti dalle stesse mani dell’uomo, prima che l’azione del tempo agisca con la sua azione di usura lenta, ma inesorabile. Non tutto ciò che ha lasciato un’epoca è davvero monumento e merita la conservazione. Monumenti di un’epoca sono ciò che l’ha caratterizzata e che l’ha definita. 

Un extraterrestre che giungesse sulla Terra in questi anni di inizio del terzo millennio vedendo i programmi televisivi e leggendo i romanzi di oggi, i rotocalchi, le riviste e i quotidiani si farebbe immediatamente un’immagine dell’uomo, quell’immagine di uomo ideale che viene veicolata dalla struttura massmediatica odierna, coincidente, spesso, con il personaggio di successo. In un certo senso in ogni epoca il personaggio ideale è considerato quello che si afferma più distintamente. Oggi, però, merita la copertina colui che guadagna di più o fa più scalpore o audience, magari attraverso comportamenti volutamente sopra le righe, oppure calciatori e veline, cantanti che denunciano la propria depressione o la propria dipendenza dalle droghe, ragazzi che ostentano la propria ignoranza e la propria subcultura durante trasmissioni televisive. Tutto ciò oggi sembra andare di moda ed attrarre. Non è, però, l’esito casuale di un frangente storico, ma cifra distintiva di una nuova cultura o meglio pseudocultura. Oggi giorno giudizi su eventi storici o cambiamenti epocali sono affidati alla verbosità e all’irruenza dei talk show e delle trasmissioni televisive di maggior successo piuttosto che alla riflessione e alla ragionevolezza di chi, in maniera autorevole, parla a nome di un popolo. Pensiamo al ruolo che un secolo fa rivestiva la figura del poeta, considerato come interprete di un’epoca e di una civiltà, autorevole giudizio nelle circostanze storiche tragiche. Pensiamo al fatto che nel 1911 il discorso di Pascoli sulla conquista di Libia veniva scritto e volantinato ai soldati. Non si vuole certo qui parlare del valore morale o politico di un documento che manifesta una certa ingenuità nelle ragioni politiche, ma, casomai, si desidera sottolineare l’autorevolezza che godeva allora la figura del poeta. Dopo un secolo, oggi, pochi conoscono i nomi dei poeti, degli artisti e degli intellettuali odierni.

L’epoca contemporanea ha, però, anche un altro triste privilegio. In tutte le epoche gli intellettuali hanno dissertato sull’esistenza di Dio. Molti hanno cercato anche di confutarne l’esistenza. Sono sempre esistiti gli atei. Nelle epoche passate, però, la negazione dell’esistenza di Dio raramente si è accompagnata ad una presuntuosa tracotaggine e ad una gaia spensieratezza totalmente dimentica del limite umano e della morte. L’uomo di oggi troppo spesso si vanta di poter fare a meno di Dio, di poter assaporare i piaceri e le gioie con più libertà, una volta che è stato reciso il legame con il destino e con il Mistero. Finalmente, una volta che tutte le certezze del passato sono state obnubilate e che la tradizione ha rivelato la sua inconsistenza, l’uomo sarebbe libero e potrebbe, così, ripartire ex nihilo e, mostrando di non avere debiti con il passato e con la superstizione metafisica, creare un mondo nuovo. 

All’epoca degli antichi Greci la mancanza di certezze, di divinità buone conduceva ad una serietà nella vita da cui sarebbero nati gli eroi antichi, uomini che, pur nel dolore e nel dramma della vita, si ponevano in modo dignitoso di fronte alla vita e al destino. La tragedia antica è l’esito più maturo di questa percezione dell’uomo avversato dalla fortuna e dalle divinità, disperato, cioè senza speranza. Quella antica è una disperazione seria, titanica, profonda, che potrebbe essere ben espressa con le parole dello scrittore contemporaneo F. Kafka (1883-1924): «Se la salvezza c’è, voglio esserne degno». L’uomo antico è profondamente religioso e in tutti i modi cerca di indagare il destino, il mistero, il significato. Quella di oggi è, invece, una gaia disperazione, propria di un uomo che, pensando di poter fare a meno di Dio, deve anche dimenticarsi del destino. Vuole vivere sereno, tranquillo, ottimista, anche se senza ragioni di speranza. Quanta distanza separa l’uomo contemporaneo dalla serietà dell’uomo greco!

Nell’epoca contemporanea abbiamo davanti a noi molti idoli, che mostrano se stessi come risposta al bisogno e alle domande dell’uomo. Gli idoli non sono compagnia nel cammino dell’esistenza. Se lo fossero, mostrerebbero tutta la loro inconsistenza. Gli idoli sembrano affascinare per la loro presunta autonomia, per l’autosufficienza, come se fossero in grado di darsi la felicità da soli. Solo apparentemente questo modello umano di divo idolatrato proposto dai mass media contemporanei si contrappone alla cultura intellettuale che ha caratterizzato il secolo Ventesimo. Un uomo non impegnato con il reale, in apparenza solare, che non sente il peso della vita e delle difficoltà è, forse, la conseguenza dell’insostenibilità di una visione della vita e del mondo assurda, deprivata del suo significato e di un senso.

La leggerezza dell’io è l’altra faccia della medaglia dell’insostenibile pesantezza di una realtà divenuta incognita, inconoscibile, carcere tetro e ragnatela che impedisce di evadere. La leggerezza dell’essere è conseguenza dell’incapacità a reggere un rapporto vero con la realtà, che è diventata insopportabile, una volta che si è fatto fuori il Mistero, il Creatore, il Destino, una volta che si è soli e che ci si percepisce soli. L’uomo leggero, così come è veicolato dai mass media, non comunica davvero, non si mette in relazione con gli altri, è autonomo, non ammette responsabilità, non si prende cura degli altri, ma solo di se stesso. O così almeno crede.

Se è difficile o addirittura impossibile sostenere l’uomo e la sua speranza, allora è preferibile scordarsi dell’uomo e della sua domanda. Infatti, una volta persa la chiave di accesso al reale, questo non è più affrontabile. Quando non si guarda più in profondità la realtà con lo stupore del bambino, quando la realtà non è più segno di Altro e possibilità di inoltrarsi in un senso, allora l’unica possibilità è escludere il reale ed evadere in un mondo che non ha problemi. Crediamo che sia questa una delle possibili interpretazioni del desiderio della cultura contemporanea di non sottostare al reale, ma di creare col pensiero (l’esito è l’ideologia) o di evadere in mondi virtuali e immaginari.