La Francia si ritira dal Mali che tratta con i jihadisti
Macron ha annunciato il ritiro dal Paese africano delle truppe francesi ed europee, che mette in dubbio il futuro delle missioni. Alla base della decisione l’atteggiamento ostile del governo maliano, retto dai militari, che negoziano con i jihadisti e rinviano il ritorno alla democrazia.
Tutta l’attenzione in questi giorni è rivolta all’Ucraina. Forse anche per questo stanno passando quasi inosservati gli importanti sviluppi in corso su un fronte di guerra che pure vede impegnati migliaia di militari europei, almeno 200 dei quali italiani. È la guerra in Africa contro il jihad, contro i gruppi armati affiliati ad al Qaida e all’Isis che infestano in particolare gli stati del Sahel. Il Mali è uno dei paesi più colpiti. Nel 2012, approfittando del tentativo di secessione dei tuareg del nord seguito da un colpo di stato militare, tre gruppi jihadisti, Mujao, Al Qaida nel Maghreb islamico e Ansar al Din, si sono impadroniti, senza trovare resistenza da parte dell’esercito governativo, di gran parte delle regioni settentrionali, insediandosi nelle principali città: Gao, Timbuctu e Kidal.
Solo l’intervento militare internazionale ha liberato i territori occupati dai jihadisti che tuttavia hanno mantenuto basi operative in Mali così come nei paesi confinanti e, di recente, hanno riguadagnato terreno nel nord e nel centro del paese. L’Operazione Serval (ribattezzata poi Barkhane), lanciata dalla Francia nel 2013, aveva riconquistato rapidamente quasi tutto il nord e da allora limita frequenza e portata delle attività jihadiste. Per affiancarla nel 2019 Parigi ha chiesto e ottenuto la costituzione di una forza multinazionale europea, la Task Force Takuba, composta da unità delle Operazioni speciali dei paesi europei, che concentra le proprie operazioni nella zona cosiddetta dei “tre confini” (Mali, Niger, Burkina Faso) nella quale gli attacchi jihadisti sono più frequenti.
L’operazione Barkhane conta 5.000 militari. La Task Force Takuba ne ha 600, messi a disposizione da 14 paesi Ue e dalla Gran Bretagna. Altri militari europei fanno parte della Minusma, una missione Onu di peacekeeping creata nel 2013, costituita da 15.209 uomini, tra militari e civili, di 57 paesi prevalentemente africani, schierati nelle principali città.
Questo lo scenario attuale, destinato però a cambiare radicalmente nei prossimi mesi. Il presidente francese Emmanuel Macron il 17 febbraio ha infatti annunciato il ritiro dal Mali delle truppe francesi ed europee, ritiro che solleva dubbi anche sul futuro della Minusma e delle missioni Ue Eutm ed Eucap, incaricate dell’addestramento e del rafforzamento delle forze militari maliane, poiché la Francia fornisce loro supporto sanitario e militare.
Nella conferenza stampa successiva all’incontro con i leader europei e africani, svoltosi il 16 febbraio all’Eliseo, il presidente Macron ha motivato la decisione di lasciare il Mali con l’atteggiamento ostile assunto dal governo maliano nei confronti della Francia e di altri paesi europei (culminato con l’espulsione dell’ambasciatore francese e di quello danese) e ha assicurato che Parigi e i suoi partner continueranno a sostenere la lotta al jihad nel Sahel. Entro giugno le truppe saranno spostate in Niger, secondo accordi già presi con il governo nigerino, e negli stati del Golfo di Guinea.
In realtà le tensioni tra Francia e Mali e la decisione di lasciare il paese al suo destino, o meglio nelle mani dei suoi governanti, è maturata nel corso dei mesi. I militari hanno preso il potere in Mali con due colpi di stato: il primo nell’agosto del 2020, il secondo, rovesciando il governo di transizione nove mesi dopo, nel maggio 2021. Hanno dichiarato che il ritorno alla democrazia non avverrà prima del 2025 e, fatto più grave, nel febbraio del 2021 hanno manifestato l’intenzione di negoziare con i gruppi jihadisti, intenzione che anche gli altri governi della coalizione militare 5G Sahel (Niger, Burkina Faso, Ciad e Mauritania) hanno detto di essere disposti a prendere in considerazione. “Non possiamo collaborare e tanto meno condurre operazioni congiunte con governi che decidono di trattare con i gruppi armati che hanno ucciso i nostri ragazzi – aveva replicato il presidente Macron –. L’Islam radicale in Mali mentre i nostri soldati sono là? Mai. Se il governo va in questa direzione, ce ne andremo”.
Il governo del Mali da parte sua rinfaccia alla Francia e all’Unione Europea di aver fallito, di non aver liberato il paese dai jihadisti. Ma tutti temono le conseguenze della partenza delle truppe internazionali. I mercenari russi che li stanno rimpiazzando difficilmente potranno fare meglio. Il problema che finalmente viene alla luce, dopo decenni di impegno contro il terrorismo islamico in Africa, è che gli interventi stranieri non possono sostituirsi ai governi incapaci e privi della volontà di combattere il jihad, a maggior ragione perché sono proprio i governi africani, inefficienti, corrotti, brutali nel reprimere il dissenso, assenti nelle aree rurali a favorire la diffusione e il consolidamento dei gruppi jihadisti. Il Mali ne è un chiaro esempio. “È tempo di rivedere il ruolo della comunità internazione in contesti simili – ha spiegato di recente l’Ird, Istituto di ricerche per lo sviluppo – e di ammetterne i limiti. Oggi il successo della lotta al terrorismo dipende prima di tutto dalla volontà, più ancora che dalla capacità, dei leader politici africani di stipulare un nuovo contratto sociale con i loro connazionali”. Senza questo, ogni impegno esterno può solo contenere i danni e in definitiva fallire.