Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Santi Anna e Gioacchino a cura di Ermes Dovico
Eurabia

L'imam "moderato" in carcere, si rischia l'effetto boomerang

Ascolta la versione audio dell'articolo

Anche a Milano e a Chiavari i sempre più numerosi detenuti islamici avranno il loro "cappellano". Per i governi europei è un argine alle derive jihadiste, ma in certi casi più che una soluzione è parte del problema. E gli esperimenti già in atto non lasciano dormire sonni tranquilli.

Attualità 26_07_2025
SERGIO OLIVERIO - imagoeconomica

Sette detenuti su dieci, nel carcere minorile Beccaria di Milano, sono musulmani praticanti per loro stessa ammissione. Il 65% dei detenuti non sono immigrati appena arrivati, ma figli dell’Italia: immigrati di seconda generazione, quelli che proprio a Milano si chiamano maranza. Il dato è più di una statistica: è il cuore di una tensione sociale esplosiva. Perché quella sproporzione etnica e culturale, che vede una netta prevalenza di giovani nordafricani e mediorientali, apre uno squarcio inquietante tra le maglie della giustizia minorile.

Arrivano al Beccaria per rapine, violenza, spaccio. Distaccati per scelta personale, e familiare, da tutto ciò che viene percepito come “occidentale”, sono il terreno fertile per l’ultraradicalizzazione jihadista. Basta l’influenza di un “fratello” carismatico per trasformare la rabbia in fanatismo e voglia di "dare battaglia".
Per questo, tra mille cautele e non poche tensioni, è arrivata la decisione: al Beccaria entra un imam. Si chiama Abdullah Tchina, 58 anni, già guida spirituale a Sesto San Giovanni. A sceglierlo è stata l’Arcidiocesi di Milano, in accordo con il carcere e il Tribunale per i minorenni. Individuato tra i tanti, per le sue posizioni "moderate". Un po’ come si sceglie il candidato della lista civica alle comunali. Tchina avrà la possibilità di tenere colloqui individuali, incontri collettivi di preghiera o lezioni di dottrina islamica al fine dichiarato di disinnescare l’estremismo in un istituto che assomiglia sempre più a un ghetto.

Intanto, in questi giorni, anche a Chiavari, è stato avviato un nuovissimo servizio di “meditazione spirituale” per i detenuti di fede islamica. È stato affidato all’imam Ahamed Abdou che guida la preghiera del venerdì nel carcere, tiene sermoni e ascolta i detenuti in colloqui personali. Una decina, per ora, i partecipanti. L’amministrazione carceraria cerca così di andare incontro alle esigenze dei fedeli islamici che rappresentano la religione prevalente: vitto serale durante il Ramadan, menù halal, colloqui, spazi di preghiera adibiti ad hoc.

I numeri sono espliciti. In Italia, i detenuti musulmani – non solo nelle carceri minorili – sono circa 10mila secondo i dati dell’Ucoii — Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia, che gestisce gli imam nelle carceri dal 2015 ma i cui risultati e obiettivi non sono noti a nessuno. Un dato ufficiale, al ribasso se si considera che non è stata rilevata la fede religiosa di oltre 15mila persone e che i dati del DAP sono fermi al 2017, quando contavano 7mila musulmani praticanti. 

Nel frattempo, stando alle statistiche che ogni anno Europol ci fornisce, l’età di chi compie attentati di matrice islamica è in costante diminuzione. Nel 2024, il 29% degli arrestati per terrorismo in Europa aveva tra i 12 e i 20 anni. Gli istituti penali minorili registrano un aumento regolare di reati compiuti da giovani stranieri: nel 2024 al Beccaria sono entrati 297 minorenni, di cui 227 stranieri. L’87% di questi proveniva da Paesi islamici.

Per Europol, le carceri restano uno dei principali bacini di reclutamento del jihadismo in Europa. Dietro le sbarre si diffonde la propaganda, si formano micro-gerarchie e il carcere diventa un vero e proprio campo di addestramento ideologico. Nasce da qui l’idea di un imam negli istituti minorili: arginare le derive islamiste sul nascere e offrire ai ragazzi chiavi culturali e spirituali per tornare a vivere fuori dal tunnel.

Ma il quadro europeo non fa dormire sonni tranquilli. Per lo Stato Islamico, il carcere non è un luogo di punizione, bensì uno strumento occidentale della “crociata contro l’Islam”. La prigione è mitizzata come luogo di eroismo, martirio e vendetta. Una narrativa che ha radici profonde, coltivate da manuali e propaganda e che l’Isis, in questi anni, ha saputo sfruttare magistralmente.

In Francia sono più di 500 i detenuti condannati per terrorismo islamico, e oltre 900 quelli sorvegliati per rischio radicalizzazione: numeri da allarme rosso. Nel Regno Unito, al 30 giugno 2024, i detenuti per terrorismo sono 252, e quasi due su tre — il 63% — sono legati al terrorismo jihadista.

E mentre l’Italia inizia a sperimentare nuove modalità di deradicalizzazione servendosi degli imam e lanciando progetti pilota con i giovanissimi, in Europa, esiste da anni un’ampia letteratura di programmi per  deradicalizzare le carceri che arrancano e falliscono. In Francia, il Senato, sette anni dopo l’ingresso di imam in carcere e tutta una serie di misure,  le ha bollate come “deludenti”. In Gran Bretagna, l’Independent Reviewer of Terrorism Legislation ha evidenziato che gli ultimi quattro attacchi terroristici sono stati compiuti da individui detenuti in custodia o da poco scarcerati.

Già nel 2009, la Quilliam Foundation affrontava il tema della radicalizzazione in carcere con il governo britannico che aveva scelto di investire in cappellani musulmani come argine al fanatismo. Diversi terroristi britannici, tra cui Richard Reid, Jermaine Grant e Abdul Muah, si sono convertiti all’islam proprio dietro le sbarre dove avevano a disposizione imam per contrastare l’estremismo e svariati libri di testo musulmani.  

Ahtsham Ali, figura di spicco e controversa dell’islam britannico, ricopre dal 2005 l’incarico di Islamic Advisor (consigliere islamico) presso il Servizio penitenziario di Sua Maestà, un ruolo strategico che lo vede sovrintendere alla selezione e alla formazione degli imam impiegati nelle carceri del Regno Unito. Il suo nome, tuttavia, non è nuovo alle cronache: Ali fu presidente della Islamic Society of Britain, movimento islamista che l’ex capo dell’MI6, Sir Richard Dearlove, ha definito senza mezzi termini «un’organizzazione terroristica». Già alla guida dei Young Muslims UK, gruppo noto per il suo fervore attivista, Ali non ha mai nascosto i rapporti con personaggi come Omar Bakri Mohammed, predicatore sostenitore del terrorismo, condannato per attività di addestramento di jihadisti.

In Francia la storia non è differente. Dopo i tragici attentati del 2015, le autorità francesi hanno serrato le fila, avviando un rigoroso censimento dei luoghi di culto islamici. Già nel 2016, furono 19  le moschee chiuse perché guidate da imam che predicavano odio e incitavano alla violenza. Da allora, ogni anno circa una ventina di moschee e centri di preghiera vengono chiusi, e altrettanti imam espulsi. Senza dimenticare che la barbara decapitazione del professor Paty, in pieno giorno e davanti a una scuola, fu istigata proprio da un imam.
I governi d'Europa considerano gli imam per una possibile soluzione alla minaccia della radicalizzazione nelle carceri, alcuni di questi sembrano, tuttavia, essere parte del problema.

Ma non è tutto qui. In Italia, chiunque può essere imam. Non esiste una certificazione statale, né un percorso di formazione ufficiale. L’imam non gode di uno status giuridico definito perché non ha firmato nessuna intesa con lo Stato. Non si sa chi li forma, ci si può anche autoproclamare. Spesso studiano all’estero – in Paesi come Marocco, Egitto, Turchia, Arabia Saudita – e comunque mai esiste un controllo centralizzato. C'è poi da considerare la differenza tra imam nella versione sunnita, che è simile a un predicatore, mentre in quella sciita, a una figura quasi profetica o carismatica.

Per l’islam non si prevede separazione tra moschea e Stato ritenuti indissolubili. La logica dell'islam non riconosce nessuna permanente forma di potere o religione al di fuori dell’islam. Nel frattempo è dovere di ogni islamico fare ciò che gli è possibile per il raggiungimento della sottomissione dell’interno mondo all’islam. La guerra è contemplata come uno dei mezzi per il raggiungimento dello scopo. Secondo la Shari’a, la pace fra uno Stato islamico e uno non islamico è giuridicamente impossibile. E allora, come si selezionano figure affidabili al punto da poter delegare loro la formazione e cura di minorenni detenuti?
E quando l’imam si troverà a leggere, in un carcere minorile, per esempio, una Sura come la 9:29, «Combattete quelli che non credono in Allah»?