La fortuna non c'entra: chi ha più talenti, più deve dare
«A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più (Lc 12, 48)». È terribile la frase del Signore riportata nel Vangelo di Luca. La celebre parabola dei talenti richiama ognuno al massimo senso di responsabilità e tutti al rassegnarsi alla giustizia.
«A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più (Lc 12, 48)». È terribile la frase del Signore riportata nel Vangelo di Luca: richiama ognuno al massimo senso di responsabilità e tutti al rassegnarsi alla giustizia. Nella narrazione Nostro Signore, nel preannunziare il giudizio finale (“particolare”, in quanto riguarda singoli individui) ci dice che sarà basato sui meriti di ognuno, e che il metro di giudizio per ognuno sarà la giustizia. Non è compito mio spiegare o commentare brani delle Scritture: vorrei piuttosto usare alcuni dei principi enunciati nella parabola dei talenti per vedere se e come possano essere applicati in riferimento alla vita civile, e con quali differenze.
Innanzitutto il termine entro il quale il giudizio dovrà essere dato. Per il giudizio finale il termine della vita è il momento oltre il quale non è più possibile modificare nulla; non è così per quanto riguarda la vita civile; in essa il giudizio può essere espresso in qualsiasi momento, ed è sempre suscettibile di revisione, perché la vita è un processo che ha un termine, e che evolve fino al momento nel quale, all’intervenire della morte corporale, nessuna evoluzione sarà più possibile. L’insegnamento immediato è che dobbiamo usare il tempo disponibile – che può terminare in qualunque momento – nel miglior modo possibile, per progredire e migliorare.
Dobbiamo anche aspettarci che tutto venga remunerato, nel bene e nel male, secondo il nostro comportamento. Ogni cosa buona sarà premiata, ogni cosa cattiva comporterà una punizione. Non esistono fortuna, circostanze o esimenti di altro tipo. Ricordiamo tutti la bella frase “Unusquisque est faber fortunae suae”, che il grande storico romano Gaio Sallustio Crispo (naturalmente non cristiano: è vissuto nel I secolo a.C.) scrive nelle sue “Epistulae ad Caesarem senem de re publica”. Con questa frase veniamo tutti richiamati ad assumerci la responsabilità delle nostre azioni e del loro esito verso noi stessi e verso la comunità; di questo dovremmo essere intimamente convinti e trarne le conseguenze: lo stato delle cose è in ogni momento quello che abbiamo determinato coi nostri comportamenti, e non c’è barba di condizionamento sociale o di condizione genetica che possa essere chiamato ad esimente, e nemmeno in correità. Chiamare lamentosamente in causa la sfortuna come causa dei propri insuccessi è da miserabili incapaci di assumersi la proprie responsabilità.
Su questa frase c’è un’altra osservazione da fare: essa costituisce la lapide sepolcrale delle pretese di affermare l’uguaglianza come regola della società: l’uguaglianza va pretesa e applicata solo per quanto riguarda i diritti connaturati con l’essere uomo; per le altre situazioni va applicato il criterio della parità, secondo il quale vanno trattate nello stesso modo solo situazioni tra loro uguali. Accertato il criterio della remunerazione, resta da chiarire secondo quali parametri.
E qui ci aiuta ancora Luca, che ci riferisce le parole del Signore: «… a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza, ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha». Ognuno di noi è impegnato a rendere conto per quello che ha avuto. Non secondo un rapporto lineare, ma in progressione; chi ha avuto – in doti intellettuali, preparazione culturale, relazioni sociali, caratteristiche fisiche, simpatia e quant’altro – deve aver messo a frutto le doti ricevute, restituendo alla società di più se di più ha avuto, secondo un rapporto che moltiplica in modo progressivo il ritorno richiesto. Troppo spesso, invece, chi parte avvantaggiato si contenta di restituire alla società quanto è sufficiente a se stesso, mancando così al dovere sociale e alla fiducia riposta su di lui.
Per tutti gli uomini sono uguali l’amore e la misericordia di Dio; ma Egli si aspetta da ognuno di noi una restituzione di misura tanto maggiore quanto più grandi sono stati i doni che ci ha elargito. Se sostituiamo la parola “società” alla parola “Dio” la frase precedente diventa l’enunciazione di un principio di morale laica assolutamente ineccepibile.