La Fiat vive nel mondo reale. L'Italia no
La Fiat non è più il carrozzone para-statale degli Agnelli, che campava di sussidi. Quella di Marchionne si è fusa con la Chrysler ed è diventata una multinazionale. Ma la classe politica e sindacale italiana non se n'è ancora accorta.
All’indomani dell’“acquisto” della Chrysler da parte della Fiat, con grande eleganza Sergio Marchionne ha scelto non un quotidiano di casa come La Stampa o Il Corriere della Sera bensì la Repubblica per illustrare i suoi piani per il futuro. L’ha fatto con un’intervista di due pagine pubblicata ieri, cui a titolo di omaggio ha provveduto in ginocchio lo stesso direttore del quotidiano romano, Ezio Mauro.
Perfetto bilingue ma in quanto a cultura economica tipicamente nordamericano, il manager italo-canadese è, diciamolo ancora una volta, un “marziano” rispetto all’ordine costituito della grande industria italiana storica e quindi della Fiat, un gigante dai piedi d’argilla cresciuto all’ombra della protezione politica. Un’azienda che, insieme alla sua forza lavoro ultra-garantita, fino alla globalizzazione sopravviveva solo grazie a continue scorpacciate di denaro pubblico; e che al sopravvenuto venire meno di tale dieta era perciò precipitato in una crisi cruciale.
Giunto nel 2004 al vertice della Fiat, Marchionne aveva molto presto spiegato chiaro e tondo quale fosse il suo programma: lasciarsi alle spalle la Fiat dell’epoca ormai tramontata della protezione politica e dei sussidi pubblici, per fare del gruppo torinese un’azienda che, producendo per il mercato globale, dal governo del Paese ove ha sede la sua direzione non si attende nulla di diverso da quanto si attende dal governo di qualsiasi altro Paese; e che dalla forza lavoro dei suoi stabilimenti in patria si attende e rispettivamente offre ciò si attende e rispettivamente offre alla forza lavoro dei suoi stabilimenti altrove.
Come pugili “suonati” che continuano a tirare pugni verso antagonisti ormai immaginari, la classe politica e le centrali sindacali italiane hanno invece continuato a guardare alla Fiat con gli stessi occhi di sempre, ma per di più senza poter più promettere soldi o rispettivamente senza potersi più avvalere della capacità di pressione sociale e politica di un tempo. Per un po’ Marchionne ha provato a spiegarsi. C’è un documento molto chiaro al riguardo: una sua relazione al Meeting di Rimini del 2010, facilmente reperibile sul sito www.meetingrimini.org. Quando però ha capito che era tempo perso ha cambiato strada puntando piuttosto sulla trasformazione della Fiat nel segmento di nicchia di una grande multinazionale dell’auto con base principale in Nord America (in effetti non solo negli Usa dal momento che molta della capacità produttiva della Chrysler è in Canada).
Questa è la sostanza dei fatti al di là del fatto che Marchionne ha ormai imparato a dire le cose come stanno anche in modi e con toni che consentano di non capirle (o di far finta di non capirle) a chi in Italia non le vuol capire. L’intervista a la Repubblica di cui si diceva è un documento esemplare al riguardo, tanto più che l’intervistato risponde a domande che si è evidentemente fatto da sé. Alla domanda se adesso la Fiat si senta padrona della Chrysler ecco la risposta di Marchionne: “Qualcosa di più, di meglio. Abbiamo creato una cosa nuova. E da oggi il ragazzo americano che lavora in Chrysler quando vede una Ferrari per strada può dire: è nostra”. E il ragazzo ha perfettamente ragione, aggiungiamo noi, considerando che, come ha fatto notare il Financial Times, dei 4,4 milioni di vetture prodotte l’anno scorso dal gruppo Fiat-Chrysler, quelle uscite dagli stabilimenti della Fiat sono state soltanto un milione mezzo, di cui non più di 370 mila dagli stabilimenti italiani; e il resto per la maggior parte da quelli latino-americani oppure polacchi, slovacchi e serbi.
Al di là dunque di ogni finezza contabile e di ogni capriola verbale, se un’azienda da un milione e mezzo di auto prodotte se ne mangia una che ne produce quasi 4 milioni, in fin dei conti chi mangia chi? Rispetto a quando era da poco tornato nella patria che aveva lasciato all’età di quattordici anni Marchionne ha fatto passi da gigante in quanto a capacità di cantare secondo i gusti del pubblico. Sentite che cosa risponde poi alla domanda su dove sarà la sede della nuova società: “Lo decideremo anche in base alla scelta di Borsa, ma mi lasci dire che è una questione che ha un valore puramente simbolico, emotivo”. E in quale Borsa andrà mai a quotarsi il nuovo gruppo? “Fiat è quotata a Milano. Poi andremo dove ci sono i soldi, dove c’è un accesso più facile ai capitali. Non c’è dubbio che il mercato più fluido è quello americano, quello di New York, ma deciderà il Consiglio di Amministrazione (…)”. E così sia.
Nel nuovo orizzonte che si apre quale sarà la parte affidata alla Fiat? la fascia “Premium, prodotti di alta qualità con concorrenza ridotta, clienti più attenti, margini più larghi (…) in fondo abbiamo marchi fantastici e per definizione Premium come l’Alfa Romeo e la Maserati (…)”, risponde bonariamente un rassicurante Marchionne. In questo ruolo di boutique di lusso gli stabilimenti italiani hanno davanti a sé un nobile anche se esiguo futuro ma, ammonisce il manager italo-canadese, se si continua a “martellarci i piedi, invece di puntare sul meglio, finirà anche questa storia”. E il marchio Fiat che fine farà? “Andrà nella parte alta del mass market con le famiglie Panda e Cinquecento (prodotte in Polonia e in Serbia. Ndr)” mentre “Lancia diventerà un marchio solo per il mercato italiano, nella linea Y”. E buonanotte. C’è da scandalizzarsi per questo? Può farlo solo chi si sia prima adeguatamente scandalizzato di un ceto politico e di una dirigenza sindacale storica che - a quasi venticinque anni dalla fine della Guerra fredda nonché dall’inizio della globalizzazione e dall’effettivo completamento del mercato comune europeo – non hanno ancora capito in che mondo siamo.