L'ANNIVERSARIO
La ferita di Guttuso
A 25 anni dalla
morte, rimane
il mistero della conversione
del pittore testimoniata
dalla sua Crocifissione.
Cultura
21_01_2012
Renato Guttuso (1911-1987) è parte importante della storia artistica italiana del secondo Novecento. Ha goduto in vita di una popolarità insolita unita a grande autorevolezza da maestro. E ha attraversato le stagioni astratte e informali coltivando imperterrito una figurazione dal misurato segno espressionista. Figure vigorose, colori saturi, segno calcato, una tendenza leggera alla bidimensionalità lo hanno reso un pittore comprensibile e amato. Allo scadere del 25° anniversario della morte (18 gennaio 1987) e il 100° della nascita (26 dicembre 1911) è legittimo domandarsi che cosa resta di Guttuso.
Poco prima della morte, e non avendo figli naturali, egli adottò Fabio Carapezza Guttuso, che gli fu molto vicino e di conforto negli ultimi anni. Fabio, erede unico, fondò in seguito gli Archivi Guttuso, ai quali destinò lo studio dell’artista, e integrò il Museo Guttuso di Bagheria con abbondanti opere. Ci troviamo così davanti a un artista ben documentato e visibile in larga parte delle opere, specialmente le più celebrate, presenti in vari musei. In più, lo scorso dicembre sono stati trovati diversi quaderni di un Renato adolescente che rivelano una personalità in costruzione ma già determinata in una direzione ben precisa: disegna tanto e bene, ha idee antifasciste, rifiuta la poetica del futurista Pippo Rizzo, che conosce, per scegliere i classici; è un ragazzo di grandi passioni ma anche consapevole di dover fare scelte difficili e urgenti: «Non è più il tempo dei giardini di limoni, delle notti di luna e dei discorsi antichi dei contadini di Bagheria», scrive. Legge i discorsi di Lenin sugli opuscoli clandestini dell'Avanti! E disegna sui quaderni la falce e martello.
Guttuso fu sempre un comunista organico. A 20 anni era iscritto al PCI e, anche se qualche volta ebbe divergenze «estetiche» con la dirigenza, nel 1976 fu eletto senatore per il PCI e rieletto nel 1979. Nel 1970 aveva ricevuto a Mosca il Premio Lenin per la Pace. Il suo grande dipinto I funerali di Togliatti, del 1972, rimane un manifesto, pieno di bandiere rosse e di ritratti di comunisti storici. Tutto ciò, beninteso, non toglie né aggiunge nulla al talento artistico. Anzi, sono da preferire gli artisti che «hanno qualcosa da dire», e ne sentiamo il bisogno in quest’epoca di vacuo nichilismo. Malgrado tutto, questa militanza è stata oggetto di ardue discussioni post mortem.
Come forse si ricorderà, Giulio Andreotti testimoniò l’avvicinamento di Guttuso alla fede prima di morire. Fu perfino celebrata una messa nella camera dell’ospedale, e poi un funerale religioso in Santa Maria Sopra Minerva. Apriti cielo. Vecchi e nuovi amici atei gridarono all’imbroglio mentre da parte cattolica non mancò un enfasi di «vittoria». Trovo penose entrambe le cose. Sono molte più di quante si creda le persone che in punto di morte trovano la fede e in ogni caso Dio è misericordioso. Che cosa resta di Guttuso?
Resta per la storia un bravo pittore. Ma è la storia stessa che invita a ridimensionarlo, ora che si sono spente le luce mediatiche e ideologiche. I grossi quadroni appaiono adesso retorici e corsivi. Una retorica sottile vela anche lavori più intimisti come le nature morte e perfino i disegni e dipinti erotici, che non riescono a essere trasgressivi, come se fossero stati un tributo da pagare all’involucro culturale. Il Guttuso migliore, a dirla tutta, mi sembra quello iniziale, dove la tragedia è tragica e non teatrale. Il Guttuso della Fuga dall’Etna, con quella «avanzata violenta» che segnalò Maurizio Calvesi. E soprattutto la Crocifissione, oggetto di scandalo e incomprensione nel 1941 e che non mi sembra assolutamente un dipinto blasfemo bensì l’ematoma di una ferita che doveva essere profonda nell’artista.