La fast fashion inquina i fiumi africani
Il rapporto di una ong ambientalista accusa il settore della moda occidentale di inquinare i fiumi in Africa senza soffermarsi sulle responsabilità dei governi africani
Benché quando si parla di salvaguardia dell’ambiente l’attenzione si concentri spesso sui danni e sui possibili rimedi nei paesi europei e dell’America del Nord, guasti enormi per proporzioni e gravità vengono compiuti soprattutto in Asia e in Africa. Il 16 agosto l’ong con sede a Ediburgo Water Witness International (WWI) ha pubblicato un rapporto intitolato “Quanto è equa l’impronta idrica della moda?” che esamina gli effetti sull’ambiente dello sviluppo in Africa del settore tessile e dell’abbigliamento, stimolato da nuovi accordi commerciali, incentivi fiscali, programmi di aiuti e la forza lavoro meno costosa del mondo. WWI sostiene che la produzione per i marchi europei, inglesi e statunitensi di fast fashion sta causando un devastante inquinamento dei fiumi, nei quali vengono scaricate acque reflue non trattate per l’assenza o la mancata applicazione ove esistono delle leggi di tutela ambientale. Nel Lesotho, si legge nel rapporto, i ricercatori hanno trovato un fiume le cui acque sono blu, inquinate dalla tintura del jeans denim. In Tanzania, in prossimità di una industria tessile, un test delle acque del fiume Msimbazi, che la popolazione locale usa per lavare, irrigare e altro, ha rilevato un pH 12, lo stesso della candeggina. Nei paesi considerati il WWI ha inoltre trovato delle fabbriche che non forniscono alla manodopera, per circa l’80 per cento femminile, accesso ad acqua potabile e servizi igienici. Il rapporto mette in evidenza l’impatto economico positivo del settore, ma reclama attenzione per l’ambiente e condizioni di lavoro dignitose. Purtroppo, come quasi sempre succede, pur ricordando che spetta ai governi far rispettare le leggi, il WWI insiste soprattutto sulle responsabilità del settore della moda importato, occidentale – ditte produttrici di tessuti e abiti, marchi, rivenditori, finanziatori e clienti – elencando i marchi, circa 50, che acquistano abiti da nazioni africane o lo hanno fatto. “L’industria tessile al servizio della fast fashion – ha detto il direttore di WWI Nick Hepworth durante la presentazione del rapporto – avrebbe potuto e potrebbe ancora essere un pungolo per il cambiamento, ma i marchi e gli investitori avrebbero dovuto attivarsi in questo senso. Spetta a loro di garantire un corretto trattamento delle acque e il rispetto dei corretti standard ambientali”.