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REPORTAGE PAKISTAN/2

La fabbrica di mattoni, dove i cristiani sono ancora schiavi

Gli schiavi esistono ancora e in Pakistan il dramma colpisce 3 milioni di esseri umani, soprattutto cristiani che lavorano nelle fabbriche di mattoni per pochi euro al giorno. Malattie, debiti che non si estinguono mai, condizioni igieniche terribili. È qui che padre Edward degli oblati di Maria Immacolata provvede all'istruzione dei figli degli operai: "Perché l'istruzione è l'unica via per uscire da un destino segnato di lavori forzati". 
-REPORTAGE/1: "NOI CATTOLICI SEGREGATI NEI GHETTI"

Libertà religiosa 23_02_2019

C’è odore di fumo, di immondizia bruciata e il terreno è un misto tra fango e sporcizia. Con una delegazione di Aiuto alla Chiesa che Soffre giungiamo a una delle fornaci di mattoni che si trovano nella periferia di Lahore. La zona è quella di Karoul, nell’area nord della città. Il viaggio in macchina è stato di circa un’ora, eppure sembra di esser tornati indietro di almeno un paio di secoli.

Le fornaci di mattoni sono la prova provata dell’esistenza della schiavitù anche nel nostro XXI secolo. Sono tra i due e i tre milioni i pachistani impiegati in questo settore redditizio soltanto per i proprietari delle fabbriche. Tra i lavoratori un alto numero di cristiani che finisce in “trappola”, soprattutto a causa della discriminazione incontrata in ambito lavorativo. In Pakistan agli appartenenti alle minoranze sono precluse alcune cariche – l’art. 41 della Costituzione indica chiaramente che il Presidente deve essere un musulmano – e sono spesso riservati loro gli impieghi più umili. Non è raro infatti che negli annunci di lavoro per spazzini o addetti alla pulizia delle latrine vi sia scritto: “Annuncio per i soli non musulmani”. 

Il dramma dei lavoratori nelle fabbriche di mattoni inizia con la richiesta di un prestito al proprietario della fornace. L’equivalente di due o trecento euro, soltanto per dar da mangiare ai propri figli. Eppure tanto basta per condannare alla schiavitù intere generazioni. Il debito non si estingue mai, in parte per la paga irrisoria percepita e in parte perché i proprietari delle fabbriche spesso ingannano i cristiani, nella quasi totalità dei casi analfabeti, dicendo loro che non hanno ancora restituito il dovuto quando invece è stato ampiamente saldato. E poi sopraggiungono le malattie, la necessità di trovare i soldi per le doti delle figlie femmine. Tutti fattori che spingono a chiedere nuovi prestiti e contribuiscono ad alimentare un circolo vizioso senza uscita.

Il lavoro forzato è proibito in Pakistan, ma le strette amicizie dei proprietari con i politici locali – a volte sono perfino loro stessi a ricoprire cariche politiche – fa sì che nessuno fermi questi luoghi di schiavitù. Ironia della sorte, qualcuna di queste fabbriche è stata chiusa nell’ottobre 2018, non per le condizioni dei lavoratori, ma a causa dell’alto inquinamento prodotto dai forni in cui si cuociono i mattoni.

Gli operai guadagnano una rupia per mattone, ma se qualche pezzo si rompe o non è perfetto non vengono pagati. Sono quindi necessari 160 mattoni perfettamente integri, per riuscire a guadagnare un solo euro. I mattoni sono composti semplicemente da acqua e terra, una fanghiglia lavorata a mani nude dagli operai, e disposti in lunghe file ad asciugare al sole prima di essere trasportate al forno. Ma durante l’inverno la pioggia scioglie spesso tutti i mattoni, vanificando intere giornate di lavoro.

Le condizioni igieniche sono terribili. I lavoratori e le loro famiglie vivono in piccole stanze senza neanche il tetto, né servizi igienici. Molti di loro contraggono malattie, si feriscono gravemente sul lavoro, soffrono di seri problemi respiratori a causa del fumo della fornace, mentre alcuni perdono addirittura la vita predisponendo il forno in cui vengono cotti i mattoni. «In questi mattoni c’è realmente il mio sangue e il mio sudore», ci racconta un lavoratore cristiano mentre ci mostra come realizza i pezzi disponendo il fango in una forma rettangolare adagiata su di una tavoletta che imprime su ogni mattone il logo della fabbrica.

Accanto a lui un gruppetto di bambini, perlopiù scalzi, che lo osservano divertiti. Sembra un gioco ma per tanti di loro quel fango molliccio si trasformerà in catene impossibili da spezzare. Molte famiglie per riuscire a guadagnare un po’ di più arruolano i figli già in tenerissima età.

Fortunatamente a Lahore c’è chi salva tanti bambini da un destino obbligato, soprattutto per i cristiani. È padre Edward Thuraisingham (in foto con i bambini), missionario degli Oblati di Maria Immacolata. Settantaduenne originario dello Sri Lanka, da quasi trentacinque anni in Pakistan, il religioso ha aperto ben cinque scuole per i figli dei lavoratori delle fornaci di mattoni e altri bimbi orfani o appartenenti a famiglie povere. «I bambini dovrebbero avere dei libri in mano, non mattoni», ci dice padre Edward mentre ci accompagna in una piccola scuola poco distante dalla fornace. La struttura è in realtà parte della casa di Solomon Bhatti e sua moglie Sabbah, che insegnano anche a leggere e a scrivere ai piccoli alunni di età compresa tra i 5 e i 15 anni. «Pensiamo a tutto noi, libri, retta scolastica e divise. Se dovessero affrontare delle spese le famiglie non li manderebbero a scuola. Anzi in realtà non è sempre facile convincere i genitori, perché in molti preferiscono che i figli li aiutino a fabbricare mattoni».

Proprio mentre parla con noi padre Edward viene informato da uno degli insegnanti che un bambino si è presentato a scuola senza scarpe. Prontamente il sacerdote fruga nelle sue tasche per racimolare qualche rupia e provvedere ad acquistarne un paio. I vestiti del sacerdote sono logori e macchiati del fango della fabbrica, ed il suo pakol, berretto tipico dell’Afghanistan e di alcune zone del Pakistan, ha probabilmente qualche anno. Ma padre Edward non se ne cura, e riserva ogni singola donazione ai suoi bambini. «L’istruzione è l’unica via per uscire dalla schiavitù delle fornaci e da un destino segnato come quello di tanti cristiani qui in Pakistan», afferma raccontando come una delle sue ex alunne, Lina, sia oggi microbiologa alla Nasa.