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TELEVISIONE

La destra non ha rivali, ma la Rai resta senza presidente

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Da oltre un anno la Commissione di vigilanza Rai non riesce ad avere una maggioranza necessaria a eleggere un nuovo presidente. Il tutto alla vigilia di una nuova norma europea che vieta ingerenze politiche nella Tv.

Editoriali 26_07_2025
Rai, la presidente della commissione vigilanza, Barbara Floridia (La Presse)

Da oltre un anno la Commissione parlamentare di vigilanza Rai è bloccata, paralizzata da uno stallo politico che impedisce l’elezione del nuovo presidente. Un’impasse che fotografa con precisione quasi chirurgica il cortocircuito in cui finisce sistematicamente la politica italiana quando si tratta di affrontare il tema della governance della televisione pubblica.

Il centrodestra, che dispone di un’ampia maggioranza in Parlamento e che quindi, almeno sulla carta, avrebbe i numeri per eleggere un presidente di propria espressione, continua a puntare su Simona Agnes, figura indicata fin dall’inizio da Forza Italia e fortemente sponsorizzata da Gianni Letta, padre nobile dell’area moderata e da sempre attento agli equilibri nei rapporti tra informazione e politica. Tuttavia, quella di Agnes si è rivelata una candidatura divisiva: non solo non è riuscita a raccogliere il consenso dell’intera maggioranza, ma è anche invisa alle opposizioni, le quali, in assenza di un nome più condiviso, hanno scelto la strada dell’ostruzionismo.

Così si è arrivati a un paradosso che nell’ultima seduta della Commissione si è manifestato nel modo più evidente: lo stesso centrodestra ha fatto mancare il numero legale per paura di una possibile bocciatura della propria candidata. Una mossa che ha sancito, ancora una volta, l’impossibilità di portare a compimento la nomina e la volontà, almeno per ora, di evitare una sconfitta plateale. In questo contesto di stallo protratto, c’è però un soggetto che ha tutto l’interesse a mantenere lo status quo: la Lega. Attualmente, infatti, a esercitare le funzioni di presidente della Commissione è Antonio Marano, il consigliere anziano e uomo di fiducia del Carroccio, che da mesi mantiene una posizione di garanzia ma che, nei fatti, consente alla Lega di giocare un ruolo di primo piano nella gestione dell’organo di controllo del servizio pubblico. Una posizione di vantaggio che rischia di cristallizzarsi, soprattutto in assenza di una volontà politica chiara di sbloccare la situazione.

Eppure, al di là del caso specifico della Commissione, c’è una questione di fondo ben più ampia e che riguarda direttamente il futuro stesso della Rai e il ruolo della politica nei meccanismi decisionali del servizio pubblico. Il prossimo 8 agosto entrerà infatti in vigore l’European Media Freedom Act (EMFA), il Regolamento europeo che impone agli Stati membri di garantire l’indipendenza editoriale e manageriale dei media pubblici, vietando esplicitamente ogni tipo di ingerenza politica. Un principio rivoluzionario per un Paese come l’Italia, dove la televisione pubblica è storicamente oggetto di spartizione partitica e dove ogni governo ha sempre cercato di esercitare una forma di controllo più o meno diretto sulla Rai.

Proprio in vista della piena operatività dell’EMFA, è stato recentemente costituito un gruppo di parlamentari bipartisan con l’obiettivo di analizzare i vari disegni di legge di riforma della Rai già presentati e lavorare a un testo unico che sia pienamente coerente con le nuove norme europee. Un passaggio obbligato per non incorrere in procedure d’infrazione e, soprattutto, per avviare finalmente una stagione di reale rinnovamento del servizio pubblico radiotelevisivo.

Ecco perché lo stallo in Commissione assume una valenza ancora più grave e simbolica: come può un Paese che si dice pronto ad abbracciare il pluralismo, la trasparenza e l’indipendenza editoriale continuare a tenere bloccata la Commissione di vigilanza per oltre un anno, senza riuscire neanche ad eleggere un presidente? Quale credibilità può avere l’Italia di fronte a Bruxelles se, mentre si discute di come attuare l’EMFA, la politica continua a comportarsi come se nulla fosse cambiato? E ancora: com’è possibile che un centrodestra così ampiamente maggioritario, che ha vinto le elezioni politiche del 2022 con numeri schiaccianti, non riesca a trovare un nome alternativo a Simona Agnes, capace di raccogliere un consenso più ampio, magari anche tra le opposizioni, per sbloccare una situazione che danneggia l’immagine stessa della Rai e dell’intero sistema istituzionale?

La verità è che la vicenda Agnes è diventata il simbolo di un’incapacità strutturale della politica italiana di autoriformarsi, di superare logiche di appartenenza e di affrontare il tema della Rai con un approccio laico, non spartitorio, orientato al bene pubblico. Ed è forse proprio questo che l’Europa sta cercando di insegnarci: che la Rai non può essere il terreno su cui si consumano vendette incrociate, veti reciproci e giochi di potere, ma deve tornare a essere uno strumento di informazione imparziale, accessibile a tutti, garante della pluralità delle voci e della qualità dei contenuti. Finché però la Commissione resterà paralizzata, finché il centrodestra continuerà a intestardirsi su un nome che non ha i numeri e finché le forze politiche non troveranno un metodo condiviso per scegliere figure di garanzia vera, sarà difficile immaginare un cambiamento reale. Lo stallo non è solo una questione procedurale: è il segno di un sistema che fatica a uscire da se stesso e che rischia, ancora una volta, di perdere il treno delle riforme.

E in tutto questo il paradosso è che chi ne esce meglio, almeno nel breve periodo, è proprio chi ha meno interesse al cambiamento: chi, come la Lega, può approfittare dell’immobilismo altrui per mantenere il controllo della tv pubblica, senza esporsi e senza assumersi la responsabilità di un fallimento che è, in realtà, collettivo.