La decrescita è sempre infelice
Luca Simonetti, con il libro Contro la decrescita, raccoglie tutti i dati essenziali che smontano la teoria della "decrescita felice", elaborata da Latouche e molto di moda in Italia. Se l'uomo non vive di sola materia, non ha senso, però, privarlo del benessere finora conquistato, nel nome di un nuovo primitivismo.
E pensare che non serve certo aver frequentato un corso avanzato di retorica per capire che “decrescita felice” è un ossimoro, un accostamento di parole dal senso opposto. Decrescere vuol dire veder ridurre inesorabilmente le proprie condizioni di vita il che è, appunto, l’opposto dell'incessante miglioramento personale, una delle condizioni basilari della felicità. Se da un lato come sostiene il pensatore americano Arthur Brooks non è certo il denaro renderci felici, non si capisce come possa essere motivo di giubilo l’assenza dei mezzi necessari a condurre una vita dignitosa.
Tant’è che di sostenitori della “decrescita felice” a tutti i costi è piena l’Italia e il mondo. Il pensiero di molti l’ha raccolto Luca Simonetti nel suo saggio Contro la decrescita (Longanesi, 2014, 259 pag.): si va dall’immancabile Serge Latouche, forse il più noto sostenitore della decrescita e del localismo, fino a nomi meno conosciuti come quelli dell’antropologo americano Marshall Sahlins e del filosofo anarchico John Zerzan, tutti sostenitori - pur con le debite differenze – della validità del “primitivismo”. Pensatori secondo cui l’abbondanza sarebbe “naturale” e la scarsità “artificiale”: «L’economia trasforma l’abbondanza naturale in scarsità – scrive Latouche – attraverso la creazione artificiale della mancanza e del bisogno per mezzo dell’appropriazione della natura e della sua mercificazione». Secondo Zerzan addirittura i cacciatori-raccoglitori avevano lo stile di vita «più duraturo e di maggior successo della storia dell’umanità» e addirittura «prima della civilizzazione la malattia praticamente non esisteva».
Affermazioni che – se ce n’è bisogno - possono essere smentite da dati di ogni genere. Uno studio di Angus Maddison, ex docente dell’università di Groninga (Olanda), ci informa che nell’anno 1 il reddito pro capite mondiale era pari a 460 dollari del 1990: nel 1500 si era alzato ad appena 566 dollari, nel 1820 a 667 mentre nel 2003 era pari a ben 6.516 dollari. Da un aumento di circa il 50% in 1.820 anni la società industriale ha permesso di decuplicare la crescita in appena 180 anni: paragonato al periodo in cui si tratta di un tasso di crescita è stato cento volte superiore. Non solo: oltre a essere infinitamente inferiore, la ricchezza era anche peggio distribuita. Una serie di studi riportati da Simonetti dicono che nella Firenze del 1427 (forse all’epoca la città più ricca al mondo) il 10% della popolazione più ricca possedeva il 68% della ricchezza totale contro il 5% detenuto dal 60% più povero mentre nella tedesca Erfurt il 7% deteneva addirittura il 66% della ricchezza. Percentuali simili anche nella Pavia del 1555 dove il 20% delle famiglie aveva la proprietà del 90% delle scorte di frumento. E nella Bologna del Settecento i mendicanti (oggi li chiameremmo “disoccupati”) erano 16mila su 70mila, un quarto della popolazione. Un esempio più recente viene dalla Gran Bretagna dove nella “gloriosa” epoca vittoriana le "persone in difficoltà e molto povere" erano l’86,9% della popolazione, mentre nel 1955 solo il 7%.
Povertà, malnutrizione e malattie volevano dire vita più breve. Se per l’Encyclopædia Britannica nell’antica Roma l’aspettativa di vita alla nascita era fra i 20 e i 30 anni (45 per chi superava i dieci anni di vita) e all’inizio del 1900 viaggiava attorno ai 31 (64 per chi superava i 21 anni), nel 2014 secondo il Cia World Factbook l’aspettativa media a livello mondiale è di 68,35 anni, con un massimo di quasi 90 anni nel principato di Monaco e un minimo di quasi 50 nel Ciad. In base a uno studio dell’economista premio Nobel Robert Fogel dall’Ottocento a oggi il peso medio è aumentato del 50% e la vita media del 100%. In Italia dall’Ottocento ad oggi la mortalità infantile si è ridotta di 40 volte e così come le condizioni di vita quotidiana: sulla rivista Gerarchia del 1929 il professor Carlo Foà scriveva che un cittadino italiano poteva contare su 909.750 calorie l’anno, con punte verso il basso di 400mila per alcuni braccianti meridionali, contro il milione suggerito dai nutrizionisti.
A detta di alcuni questo non ha importanza: la crescita del benessere è avvenuta a scapito dell’ambiente, sfruttato e vessato. Anche questo è falso: pur con vistose differenze lo stesso mondo che nel 1900 sfamava male 1 miliardo 650 milioni di persone, oggi che è globalizzato ne sfama decisamente meglio oltre 7 miliardi. Ciò grazie all’aumento della produttività agricola dei terreni, merito dell’innovazione tecnologica e della rivoluzione verde (selezione delle specie migliori fra le piante). Non solo: anche quella dell’inquinamento è una falsità. Secondo i dati raccolti da Francesco Ramella, fellow dell’Istituto Bruno Leoni, nonostante un aumento della circolazione automobilistica del 230% fra il 1970 e il 2010 le polveri sottili in una città come Milano si sono ridotte del 70%. Merito anche delle emissioni dei motori diesel ridottesi fra il 70 e il 90% dal 1970 al 2015.
A conti fatti pare che l’unica posizione folle ma non manifestamente falsa sia quella di Ivan Ilich, che scrive: «Finché la povertà è stata un sinonimo per la condizione umana, essa era vista come una caratteristica pervasiva del paesaggio sociale di ogni cultura», così come la malattia; invece «la civiltà medica cosmopolita nega che l’umanità abbia bisogno di accettare questi mali» e quindi «la sofferenza […] diventando non necessaria è divenuta intollerabile». In pratica meglio essere poveri, malati e sofferenti rassegnati piuttosto che sperare in condizioni migliori e magari rimanere frustrati.
Poi ci sono certo i decrescitisti più moderati, come gli italiani Carlo Petrini e Maurizio Pallante, che vorrebbero semplicemente ridurre i consumi senza tornare all’età della pietra (ma chi decide quali sono i beni necessari e quali quelli superflui?). Tutti loro compiono in ogni caso un errore basilare: nel momento in cui dicono di voler liberare l’uomo dalla schiavitù della materia in realtà non fanno che vincolarlo, sempre più, ad essa. Se l’uomo è anche spirito perché valutare la sua esistenza, marxianamente, solo dal punto di vista dei beni materiali? E perché l'uomo dovrebbe privarsene se la loro conquista (più semplice di una volta, in cui bisognava lavorare ore e ore per la pura sussistenza) può donargli più tempo per sviluppare le proprie doti morali e spirituali e per rafforzare lo spirito di comunità?