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L'IO E LA CRISI/12

La coscienza dell’uomo nel mondo romano

La nostra tradizione occidentale ha le sue radici nella cultura greca, in quella romana e in quella cristiana. Il ragionamento, la filosofia, il gusto della bellezza, etc. sono in gran parte eredità lasciataci dai Greci; il diritto, il senso dell’unità dello Stato, etc. provengono dai Romani; l’avvenimento cristiano ha, poi, introdotto una nuova concezione della persona, della civiltà, della società.

Cultura 18_12_2016
Enea e Anchise

La nostra tradizione occidentale ha le sue radici nella cultura greca, in quella romana e in quella cristiana. Il ragionamento, la filosofia, il gusto della bellezza, etc. sono in gran parte eredità lasciataci dai Greci; il diritto, il senso dell’unità dello Stato, etc. provengono dai Romani; l’avvenimento cristiano ha, poi, introdotto una nuova concezione della persona, della civiltà, della società, etc.

Quindi, studiare la civiltà, la letteratura e la lingua latina significa conoscere le proprie radici, è un po’ come conoscere meglio un proprio genitore. Permette di cogliere ciò che accomuna l’uomo di oggi all’uomo antico e, nel contempo, introduce alla comprensione del cambiamento avvenuto nei secoli. La conoscenza del Latino illumina il linguaggio e le parole. Dai Latini, così come dai Greci, noi deriviamo la retorica, che insegna a scrivere bene, a parlare bene, a persuadere. La lettura delle grandi opere della letteratura latina, poi, da Virgilio ad Orazio, da Seneca a Cicerone (per citare solo qualche nome illustre), permette di incontrare i «grandi del passato», di confrontarci con loro, di scoprire il loro pensiero, i loro vertici artistici.

Scopriamo allora che la consapevolezza maturata dai filosofi greci sull’uomo è stata mediata nella cultura romana grazie ai circoli culturali come quello degli Scipioni (II secolo a. C.) e a figure come Cicerone (106 a. C.-43 a. C.), che porterà a Roma parte della saggezza greca attraverso la sua sterminata opera.

I trattati retorici (De oratore, Orator, Brutus) del maggior retore della latinità, le sue esemplari orazioni (le Verrinae, le Catilinariae, la Pro Milone, le Filippiche, …), i testi filosofici (De officiis, De finibus bonorum et malorum, Laelius de amicitia, Cato Maior de senectute, …), il dialogo a carattere politico De re publica rappresentano un contributo essenziale alla storia della civiltà occidentale. Nel Somnium Scipionis, in particolare, il pensiero platonico sull’anima immortale trova una sua espressione all’interno della cultura romana. Meriterà, infatti, la Via lattea (il premio eterno) colui che avrà ben operato nei confronti della patria romana. L’Arpinate, che colloca il luogo dei beati non in un mondo ctonio, bensì nella Via Lattea,  ha descritto la condizione delle anime in quell’opera immortale passata alla storia con il nome di Somnium Scipionis, in realtà non concepita come testo a sé stante, bensì appartenente alla monumentale opera politica De re publica. Cicerone si rende qui interprete di una visione minoritaria ed elitaria dell’aldilà, secondo la quale la vita terrena è solo una pallida ombra di quella che sarà quella ultraterrena.

La visione più diffusa tra gli antichi Greci e Romani è, invece, quella secondo la quale l’aldilà è un riflesso sfuocato dell’al di qua, ovvero più importante è la vita sulla Terra, in secondo piano quella che ci aspetta per l’eternità. Nell’opera ciceroniana forti sono, dunque, gli influssi platonici, in particolar modo si sentono gli echi del dialogo Fedone o del mito di Er presente nella Repubblica. Senza sviluppare, in questa sede, un argomento che richiederebbe uno spazio notevole, giova ricordare che da Platone (427 a. C. - 347 a. C.) derivano senz’altro la collocazione delle anime dei beati nel Cielo, ovvero tra le stelle, e la constatazione che la vera vita sia quella che ci aspetta nell’aldilà. Fuori dal carcere del corpo, là solo si trova la vera patria. Con Platone siamo in un certo senso ad una posizione diametralmente opposta rispetto a quella omerica.

Pochi anni dopo la scrittura del Somnium Scipionis Virgilio darà un’altra espressione letteraria del premio delle anime dei giusti attraverso la rappresentazione dei campi Elisi nel mondo ctonio descritto nel libro VI dell’Eneide. Il protagonista Enea è il personaggio che più di ogni altro incarna la tradizione romana, il mos maiorum, la pietas ovvero la riverenza nei confronti di quanti ci sono superiori, gli dei, i genitori, il comandante, la religio ovvero la ritualità e la fides cioè la lealtà e la fedeltà. Nel contempo, si differenzia dagli altri eroi romani perché cerca la risoluzione non con la guerra, ma dapprima attraverso vie alternative, più diplomatiche e ragionevoli.

Nell’Eneide Virgilio lo rende interprete del tentativo di Augusto di far scordare il tragico periodo delle guerre civili. L’Imperatore promosse quella pax che da lui avrebbe preso il nome. Per questo Virgilio non scelse come suo eroe Romolo, colpevole di essersi macchiato di un atroce fratricidio che avrebbe potuto rammemorare nei lettori i recenti scontri tra Ottaviano e Marco Antonio. Virgilio non scelse, però, neanche Augusto come forse aveva meditato inizialmente.

Scelse il pio Enea, devoto alla famiglia, alla patria, alla civitas. Per un progetto comune a lui ancora ignoto, su comando degli dei, Enea abbandona i propri interessi, sacrifica il proprio amore (la cara Didone da lui sposata segretamente a Cartagine) e parte. Il viaggio accompagna il lettore nei primi sei libri (i cosiddetti libri odissiaci). Approdato a Cartagine, terra della regina Didone, Enea racconta in un lungo flashback la distruzione della città di Troia, la peregrinazione attraverso terre lontane e a lui sconosciute, dalla Tracia fino a giungere alle coste africane. Affascinata dall’eroe troiano e presa dal racconto, Didone si innamora di lui e lo sposa. In sogno, però, Mercurio invita Enea ad abbandonare quella terra per lidi lontani. La sua partenza provocherà il suicidio della regina, che prima di morire lancerà una maledizione sulla discendenza di Enea e profetizzerà l’inimicizia tra il proprio popolo e quello dell’eroe troiano. Celebrati i funerali del padre Anchise in Sicilia, Enea approderà sulle coste laziali e dopo innumerevoli scontri con le popolazioni autoctone fonderà i primi nuclei abitati, preludio alla nascita della futura Roma. Sarà nel sesto libro che Enea apprenderà nei Campi Elisi dal padre Anchise il futuro della sua dinastia e la gloria che spetterà a Roma e a tutti quanti hanno bene meritato nei confronti della patria.

Il pio Enea, che ha salvato il padre Anchise, che ha lasciato la moglie Didone per seguire il messaggio del dio Mercurio, che ha combattuto perdendo fidi compagni rappresenta l’ideale di uomo romano, dedito allo Stato e alla patria, non proteso su se stesso, ma disposto ad abbandonare tutto per la realizzazione di Roma, di un grande Impero, così come voleva il programma augusteo di richiamo al mos maiorum.

In lui si compenetrano il senso dell’appartenenza ad una collettività e la responsabilità per la missione affidatagli dagli dei, quella di ricostruire la patria distrutta dai Greci e che, come in una nemesi storica, conquisterà quella terra, la Grecia, che aveva distrutto la vecchia patria. Nel contempo, la rappresentazione dell’Ade virgiliano (VI libro dell’Eneide) con la descrizione del Tartaro per chi ha agito male e dei Campi Elisi per quanti hanno operato per il bene dello Stato ben si presta a corroborare la visione del mondo romana.

Con l’Eneide che Virgilio non sottopose al labor limae, perché morì prima (19 a. C.), siamo giunti ormai alla pienezza dei tempi, prossimi all’avvento del Messia.