La Corte dice no, per Alfie il calvario di Charlie
La Corte Suprema del Regno Unito ha respinto la richiesta dei genitori di Alfie Evans di rivedere il caso. Stucchevoli e ipocrite parole di circostanza sulla "profonda compassione" di un caso che "non è di importanza pubblica". L'ultima parola potrebbe spettare, come per Charlie, alla Cedu.
Per loro la vita di un bambino disabile di 22 mesi non vale nemmeno la fatica di sedersi in tribunale per un’udienza. La Corte Suprema del Regno Unito ha respinto la richiesta di Tom e Kate, i giovanissimi genitori di Alfie Evans che avevano domandato ai giudici di analizzare il caso del loro bambino, tuttora senza una diagnosi precisa e che mostra segni di vitalità, rispondendo agli stimoli.
La decisione, comunicata ieri sera, arriva dopo la sentenza del 20 febbraio con cui il giudice di primo grado ha autorizzato l’Alder Hey Hospital di Liverpool a staccare il ventilatore che aiuta Alfie a respirare, dando di fatto il via libera alla sua condanna a morte, appoggiata anche dalla Corte d’Appello che il 6 marzo ha negato a sua volta la possibilità di un’udienza alla famiglia. A questo punto bisognerà capire se i genitori proveranno il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo e quale esito potrà avere, visto che alla Cedu si respira la stessa ideologia mortifera oggi imperante nel sistema giudiziario britannico.
La Corte Suprema, presieduta da Brenda Hale, che già aveva avuto il suo ruolo nell’assecondare l’uccisione del piccolo Charlie Gard, ha raggiunto ieri un altro vertice di ipocrisia, respingendo il ricorso con delle parole stucchevoli: “L’appello proposto non può essere discusso, perciò, malgrado la nostra profonda compassione per la straziante situazione in cui loro stessi si trovano, rifiutiamo ai genitori il permesso di fare appello”. In precedenza i giudici di terzo grado avevano affermato che avrebbero concesso l’appello solo se fosse stato sollevato “un sostenibile punto normativo di generale importanza pubblica”. Dunque, per i giudici che a parole esprimono “profonda compassione” non è di “generale importanza pubblica” il fatto che un bambino possa morire soffocato a causa della decisione dei loro colleghi di autorizzare il distacco del supporto vitale.
Come abbiamo visto con il calvario passato da Charlie e poi da Isaiah - casi che sono divenuti di dominio pubblico solo perché i genitori si sono ribellati e sono riusciti a organizzare una mobilitazione via Internet - assistiamo ancora una volta alla prepotenza, unita all’abuso di potere, di un sistema giudiziario ferocemente determinato ad assecondare dei medici che hanno dimenticato di dover salvare vite umane e non certo ucciderle.
Si tratta di medici che hanno mentito e, ricordiamo, già nel dicembre 2016 avevano dato per imminente la morte di Alfie: sono passati 15 mesi e il bambino smentisce con la sua vita le loro previsioni, senza dimenticare che non gli è stata nemmeno fatta la tracheostomia con la pretesa che la sua “qualità di vita” fosse bassa, secondo la definizione moderna usata dai fautori dell’eugenetica che ricordano da vicino l’ideologia nazista, con la differenza che oggi si usa un linguaggio più artefatto. Un linguaggio che arriva a giustificare tutto, compreso il fatto che il piccolo è tenuto ostaggio dell’ospedale e i genitori, che vorrebbero portarlo al Bambin Gesù o in un’altra struttura all’estero, non hanno neanche il “permesso” di curarlo. Il potere vuole essere libero di ucciderlo.