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La coop? Nella chiesa.Vescovi ormai liquidatori fallimentari

A Napoli ancora polemiche sull'uso delle chiese dismesse: spunta una foto di una donna nuda in una "performance". E L'arcivescovo Sepe che fa? "Diamo le chiese chiuse alle cooperative di giovani". Le ragioni di una ritirata che sembra un concordato fallimentare: un convegno in Vaticano si occuperà delle chiese chiuse al culto e illustrerà le linee guida per ospitare mostre o spettacoli. Insomma: tutto fuorché tornare a dirvi messa. I vescovi ormai si comportano da liquidatori di tribunale per i quali l'unico obiettivo è vendere e chiudere col passato. 

Ecclesia 24_11_2018
Il cardinal Sepe serve il pranzo in Cattedrale

L’ultima follia di chiese chiuse al culto e riaperte per altri usi vede una profanazione riemersa soltanto pochi giorni fa, ma risalente ad un “evento” del 2013. Ritrae uno pseudo artista al termine della sua performance in San Francesco delle Monache. Siamo a Napoli, città dove da qualche giorno è letteralmente esploso il caso degli innumerevoli affidamenti che la curia partenopea ha in essere con associazioni e fondazioni per lo sfruttamento dei luoghi di culto ormai dismessi.

Ebbene. Nel pieno delle polemiche anche il Corriere del Mezzogiorno sembra averci trovato gusto ed è andato a ripescare una foto che allora non fece clamore, ma che invece lo fa adesso. Ritrae appunto questo artista-santone che si fa chiamare psicomago, ma che al secolo fa Alejandro Jodorowsky. Questi occupò la chiesa di San Francesco delle Monache per una performance-workshop. Ora, a parte il termine workshop, che richiama evidentemente azioni di commercio al limite della simonia. E a parte ovviamente il fatto che la chiesa all’epoca non si chiamava già più così, ma Domus Art. Quel che ha destato scandalo è stata appunto la fotografia dello psicomago. Il quale compare al termine della performance con una ragazza completamente a seno nudo al suo fianco.

La foto pubblicata ha riacceso le polemiche in una città dove da troppo tempo, almeno 30 anni, quindi da ben prima della gestione di Crescenzio Sepe, la Chiesa affitta o concede gratuitamente i locali ad associazioni o anche a Italia Nostra per la realizzazione di eventi “culturali”, concerti e in alcuni casi anche banchetti di nozze.

La pubblicazione della foto, che si commenta da sé ha fatto andare su tutte le furie il presidente della Fondazione Vico che si è visto ritirare la concessione della chiesa di San Gennaro all’Olmo dopo la festa di Halloween. La Fondazione che ha in uso la chiesa teatro dello streptease, la chiesa di Francesco delle monache, infatti non è mai stata sanzionata dalla curia partenopea. Come in ogni sceneggiata che si rispetti adesso si assiste anche ad una guerra tra “poveri” per ottenere dalla diocesi di Napoli il trattamento migliore. Segno che quello delle chiese dismesse è un business che deve essere conservato per il bene di tutti.

Nel frattempo, la Chiesa di Napoli come sta vivendo questi giorni in cui le chiese vengono sbattute sui giornali in modi non proprio liturgici? Il comitato Portosalvo, nato da un gruppo di fedeli per preservare la chiesa omonima, ma che poi si è spinto a considerare e denunciare l’uso sconsiderato delle chiese chiuso al culto, chiede a gran voce che l’arcivescovo Sepe intervenga. O se non riesce a frenare la deriva, si dimetta.

E Sepe come reagisce? Ufficialmente senza alcuna reazione, ma non è sfuggita a molti una frase pronunciata qualche giorno fa da sua eminenza, che fa pensare molto su quelle che sono le idee della curia di Napoli in quanto a conservazione del patrimonio immenso di culto di una città, quella alle pendici del Vesuvio, dalla storia cristiana importante.

Intervenendo in provincia di Benevento ad un incontro su giovani e lavoro e sulla carenza di prospettive occupazionali di oggi, Sepe se n’è uscito così: “Abbiamo Chiese chiuse: apriamole con cooperative di giovani”.

Come se il problema fosse dove far lavorare i giovani e non che cosa fargli fare, semmai. Ma è evidente che la frase di Sepe rivela molto di più di quella che è stata poi in realtà la boutade pronunciata ad un convegno pubblico: un’idea della chiesa come sala polivalente, completamente sganciata ormai dal sacro e dalla dimensione trascendente che vive in essa, anche se da tempo non si celebra più il culto cristiano.

In fondo, dato che il vescovo ha proseguito nella politica dell’accordo con le tante realtà associative del territorio, alcune delle quali hanno preso in gestione le chiese per eventi culturali a fronte della corresponsione di un canone d’affitto, quella delle cooperative, non è altro che una variante di una concezione della chiesa come mero contenitore e il culto, cioè la messa, un semplice servizio. Venuto meno questo, viene meno anche la ragione stessa dell’esistenza della chiesa. Ergo: tanto vale affittarla al migliore offerente.

La posizione di Sepe non è però dissimile a quella di un certo mondo di potere ecclesiale, che pur riconoscendo il problema delle chiese chiuse al culto, si sta interrogando non certo su come fare per riaprirle e tornare a celebrarvi messa, ma su come trovare attività alternative che coniughino le esigenze storico architettoniche con la domanda.

E qui veniamo ad un evento per certi versi rivelatore. Si chiama Dismissione di luoghi di culto e gestione integrata dei Beni culturali ecclesiastici ed è un importante convegno che si svolgerà il 29 e 30 novembre prossimi a Roma nella cornice della Pontificia Università Gregoriana. Convegno internazionale, con tanto di comitato scientifico e nobili padrini. Tra questi il segretario generale Cei, monsignor Nunzio Galantino e il Prefetto Pontificio per la Cultura, il cardinal Gianfranco Ravasi.

La parola “integrata” già nel titolo dovrebbe far pensare a qualche cosa di altro rispetto al semplice culto, che si dovrebbe dare ormai per scontato come cessato definitivamente. L’occasione potrebbe essere interessante per porre finalmente al centro la domanda delle domande: non tanto che fare con le chiese dismesse, ma perché così tante chiese sono dismesse e soprattutto che dosa bisognerebbe fare perché la gente torni a frequentarle per andare a messa.

Invece, almeno stando ai titoli degli interventi, probabilmente l’approccio scelto sarà quello di teorizzare ancora di più usi profani per digerire con l’autorevolezza pontificia ciò che il popolo difficilmente riesce ad accettare e cioè che la propria chiesa un bel giorno possa diventare una sede di una mostra di Kandinskij, per dire.

Tra le conferenze in programma infatti troviamo titoli di questo tenore: Lettura sociologica e pastorale del fenomeno della dismissione di chiese, Riduzione ad uso profano delle chiese e sfide attuali, Discussione e approvazione delle Linee guida per la dismissione e il riuso degli edifici di culto. Con premesse di questo tipo non c’è da aspettarsi dunque che le cose migliorino per il ristabilimento della dimensione cultuale.

Infatti, molto importanti in questo senso sarannpo le due case history prese a modello dagli organizzatori. Si tratta – leggiamo – dell’esperienza della diocesi di Padova e di quella della diocesi di Trapani. E’ probabilmente da quanto è accaduto in queste due realtà che si comprenderanno le future linee guida che usciranno dalla due giorni.

Ebbene: a parlare della diocesi di Padova è invitato il direttore del Museo diocesano, quindi la soluzione museale prenderà sempre più piede. Per quanto riguarda Trapani invece il relatore sarà don Liborio Palmeri Delegato Vescovile per la ricerca, le arti e il dialogo culturale.

Che esperienza porterà il sacerdote? La Nuova BQ glielo ha chiesto e ha scoperto che quello delle chiese dismesse può essere anche un sistema, integrato appunto, in cui il culto convive con pochi spazi insieme ad una preponderante dimensione museale e spettacolare.

A Trapani infatti, negli ultimi anni, la diocesi ha recuperato dopo averla reincamerata l’antica chiesa di San Rocco. Questo edificio era stato incamerato dallo Stato dopo l’Unità d’Italia e trasformato nel corso dei secoli prima in ufficio postale, poi in una struttura sanitaria di quartiere.

Ebbene, la diocesi, meritoriamente, l’ha ripresa a sé, sfruttando una legge contenuta nei Patti Lateranensi.

Per farci cosa? “L’abbiamo riportata al culto e contemporaneamente fatta diventare un luogo di cultura – spiega don Liborio alla Nuova BQ -. La forza di questa esperienza è la dialettica tra luogo di culto e di cultura, tanto che, apposta, l’abbiamo ribattezzato Oratorio di San Rocco”. Insomma, esattamente come fa un comune con un vecchio capannone industriale, la Chiesa di Trapani ha riqualificato lo stabile, ma, e qui sta l’aspetto più discutibile, la sua vocazione cultuale dovrà essere divisa con la dimensione di luogo dato agli eventi e agli spettacoli.

Il luogo di culto, infatti, è collegato ad una mostra di arte contemporanea. Cosicché la messa, che si svolge però solo il giovedì deve convivere con gli altri usi che se ne fanno durante la settimana. “Chi viene a messa e viene a pregare può pregare e partecipare all’esperienza della mostra perché è tutto in un unico spazio. In questo modo dialoghiamo con le arti e con la contemporaneità”.

Chiediamo per quale motivo la chiesa non sia stata restituita esclusivamente al culto. La risposta non si è fatta attendere: “Perché questo è un luogo che si presta a diverse soluzioni. All’interno facciamo anche percorsi di formazione cristiana attraverso l’arte, conferenze e anche spettacoli e ogni piano dell’edificio ha una sua identità per un’attività complessiva che è educativa e culturale”.

Dalle foto che si vedono sulla pagina Facebook dell’oratorio, si può vedere una ballerina appoggiata ad una finestra proprio a fianco dell’altare. La chiamano arte. E guai a parlare di profanazione o addirittura a avanzare il sospetto che la ballerina sia troppo svestita per un luogo come una chiesa perché ci si potrebbe prendere anche dei trogloditi. Quindi è proibito scandalizzarsi perché la danza all’interno dello spazio sacro è invece espressione moderna di fede. “L’obiettivo è fare incontrare la gente”. E la fede? Don Liborio garantisce che in questi anni è cresciuta.

Sarà, ma al di là dei dubbi su un’operazione che mostra, oltre che tanto profano anche una buona dose di ambiguità, dove il sacro si mescola inestricabilmente al profano fino a perdere la sua specificità, da questi episodi è chiaro un fatto: vescovi e delegati vescovili sembrano comportarsi ormai come dei liquidatori fallimentari di un tribunale giudiziario. C’è da piazzare un “cespite” che per varie ragioni non si usa più? Nessun problema, ci organizziamo un percorso culturale e lo offriamo al miglior offerente. Oppure possiamo darlo ad una cooperativa di giovani per una start up aziendale. O addirittura, come dimostra il caso di Napoli, lo affittiamo per banchetti e pranzi di nozze.  Insomma, tutto fuorché una destinazione classica e tradizionale come provare, magari con un po' di sforzo, a rimetterci dentro una messa. 

E’ un’operazione di liquidazione non solo culturale, ma anche ecclesiale di chi ha confuso il proprio ruolo con quello dei commissari concordatari di un’azienda: vendere, incassare se possibile, riqualificare e lasciarsi alle spalle il passato. Un passato che nella Messa, però, si fa presente. Dove stia in tutto questo la proposta cristiana, non si sa.

-IL DOSSIER #SALVIAMOLECHIESE