La conversione di Paolo nel gioco di luce del Caravaggio
Dalla storia di san Paolo, apostolo delle genti, è nato uno dei quadri più famosi del Caravaggio: “La conversione di San Paolo”, o “Conversione di Saulo”, dipinto a olio su tela, realizzato tra il 1600 e il 1601. Il pittore partì dalla descrizione degli Atti degli Apostoli, le cui parole hanno un peso esistenziale straordinario.
Conversione: dal latino conversio, derivato di “convèrtere” che vuol dire “rivolgere, dirigere, cambiare, distogliere”. Parola composta da “con” e “vèrtere”, “volgere”. L’etimologia di una parola ci dice sempre tanto. Moltissimo sul profondo significato di un termine. È come andare a scavare nel terreno in cui quella parola è germogliata. La conversione non può avvenire se non con un “cum”, con un “con”. E Paolo di Tarso, nella sua vita, se si è convertito è stato solo grazie all’intervento di Dio, anzi “cum” Dio. Conversione, ossia anche uscire da sé stessi. Altro significato di non poco conto. Paolo e la sua mente logica, letterata. Ma le sue parole - a un certo punto della sua esistenza - non potevano avere più senso, se non immesse nella Parola. Nate dalla Parola.
E dalla storia di san Paolo, apostolo delle genti, invece è nato uno dei quadri più famosi del Caravaggio: “La conversione di San Paolo”, o “Conversione di Saulo”, dipinto a olio su tela, realizzato tra il 1600 e il 1601. Di proprietà della famiglia romana Odescalchi, la tela è chiamata anche “Caravaggio Odescalchi” per distinguerla da un altro dipinto sullo stesso tema, conservato nella cappella Cerasi della basilica di Santa Maria del Popolo a Roma.
“In tali circostanze, mentre stavo andando a Damasco con autorizzazione e pieni poteri da parte dei sommi sacerdoti, verso mezzogiorno vidi sulla strada, o re, una luce dal cielo, più splendente del sole, che avvolse me e i miei compagni di viaggio. Tutti cademmo a terra e io udii dal cielo una voce che mi diceva in ebraico: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Duro è per te ricalcitrare contro il pungolo. E io dissi: Chi sei, o Signore? E il Signore rispose: Io sono Gesù, che tu perseguiti. Su, alzati e rimettiti in piedi; ti sono apparso infatti per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto e di quelle per cui ti apparirò ancora”.
È la descrizione della conversione che troviamo negli Atti degli Apostoli, al capitolo ventisei. È Paolo stesso che racconta.
Caravaggio parte da questa descrizione, parte da queste parole che hanno un peso “esistenziale” di una forza incredibile. Ma c’è un passaggio su cui è importante soffermarsi: Saulo viene chiamato “ad aprir” gli occhi dei pagani, “perché passino dalle tenebre alla luce e dal potere di satana a Dio”. Così è scritto negli Atti. “Dalla tenebra alla luce”: ed è proprio questo passaggio che rappresenta la forza drammatica del quadro. La luce “agisce”. La Luce di Cristo agisce su Paolo, e la luce del Caravaggio agisce sul quadro, sul pubblico. Il gioco drammatico - ci viene in aiuto il verbo greco “drao” (agire) dal quale poi ha origine la parola “dramma” - è carico di pathos, di azione (quasi violenta, potremmo dire) sul romano Saulo. Illuminato, folgorato, dalla Luce di Cristo, è Paolo. E, attorno a lui, le tenebre. Emerge, così, la sua figura in una plasticità che cattura lo spettatore. Le parole degli Atti degli Apostoli sembrano quasi prendere corpo e voce. Ascoltiamo, infatti, il nitrito del cavallo, spaventato da cotanta luce. Un cavallo - bisogna ricordare - che però non è menzionato dalle Scritture. Ma, Caravaggio intende inserire questo “personaggio” comunque. Perché? Semplicemente perché rende la scena ancora più maestosa. La libertà dell’artista che - pur partendo da fonti sicure - vuole, con maggiore forza, dare al messaggio artistico una carica espressiva che oltrepassa il tempo e il luogo.
La scena - infatti - sembra non dominata da Saulo, ma dal suo cavallo. È tenuto da un anziano palafreniere. Il santo è a terra, abbagliato dalla luce divina. Cristo è assente. Ma solo come “personaggio”: ci pensa la sua Luce a dare il senso della sua presenza. A onor del vero, è comunque necessario sottolineare che Cristo era già risorto quando san Paolo si converte, e rappresentarlo in contemporanea - in corpo, dunque - avrebbe significato andare contro il realismo a cui Caravaggio tendeva. E poi, negli Atti si parla di una “voce”. La voce di Cristo, la voce del cuore che si converte.
Prestiamo, ora, la nostra attenzione a Paolo, colto con gli occhi chiusi, accecato dalla luce divina ma anche dalla drammatica scoperta di ciò che era stato fino a quell'istante. Non vuole vedere il suo passato, Paolo. Chiude gli occhi non solo per la luce, ma per il suo “disgusto” (parola forte, è vero ma che rende bene il concetto) per il suo passato di pagano. È il dramma interiore che viene descritto: culmina il tutto in quel gesto di allargare le braccia, come segno di conversione e di definitiva accettazione della volontà divina. Allarga le braccia, abbraccia la luce.
La luce è un “concetto” fondamentale per poter comprendere - sia artisticamente, sia teologicamente - la “conversione di Paolo”. È Benedetto XVI, in una sua omelia del 3 settembre 2008, ad “illuminarci” (verbo quanto mai appropriato) su questo evento che ha segnato la vita dell’apostolo:
«Nella Chiesa antica il battesimo era chiamato anche “illuminazione”, perché tale sacramento dà la luce, fa vedere realmente. Quanto così si indica teologicamente, in Paolo si realizza anche fisicamente: guarito dalla sua cecità interiore, vede bene. San Paolo, quindi, è stato trasformato non da un pensiero ma da un evento, dalla presenza irresistibile del Risorto, della quale mai potrà in seguito dubitare tanto era stata forte l’evidenza dell’evento, di questo incontro. Esso cambiò fondamentalmente la vita di Paolo; in questo senso si può e si deve parlare di una conversione».