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IL NUOVO PRESIDENTE

La Consulta apre la strada alla Repubblica dei giudici

Ruota tutto attorno al concetto ambiguo di coscienza collettiva l'esordio problematico del neo presidente della Corte Costituzionale, Morelli. Ma fare riferimento alla coscienza sociale ci consegna all’arbitrarietà del giudice che potrebbe affermare che esiste il diritto al suicidio, all’eutanasia, di porre fine alla vita dei propri figli perché così vuole il popolo italico. Gli esempi non sono casuali: Morelli fu il giudice che nel 2008 decise della sorte di Eluana Englaro. Ma come si individuano i nuovi diritti? Morelli pensa di far ricorso ai giornalisti per tracciare una mappa del sentito comune sui temi etici. Agghiacciante: così sarebbe il giudice a proiettare proprie personali visioni morali sul tessuto collettivo.

Attualità 18_09_2020

Il nuovo presidente della Corte Costituzionale è Mario Rosario Morelli, già vicepresidente della Consulta. Rimarrà in carica fino al prossimo dicembre.

Morelli in conferenza stampa ha dichiarato: «Sappiamo bene, per noi è un dato acquisito, che i diritti fondamentali della persona - è inutile dire che la persona è il centro della Costituzione, è il metavalore - non sono solo quelli elencati - adesso di fronte a me ci sono i professori Barberi e Modugno che lo hanno detto tanti anni fa - ma tutti quelli che emergono e che emergeranno dalla coscienza sociale e, diciamo, con carattere di analogia con quelli fondamentali o comunque di non contraddizione con i diritti fondamentali. Quindi, diciamo, c’è una sorta di diritti, una classe di diritti, che noi dobbiamo far rispettare, ove siano violati e ci venga la questione nelle forme tradizionali, che non nascono dall’alto ma che nascono dal basso, cioè sono richiesti dalla coscienza sociale. E qui il vostro ruolo di giornalisti è proprio quello di darci il polso della coscienza sociale».

Successivamente il neo presidente ricorda, quando era giudice ordinario, di aver individuato nuovi diritti, ad esempio il diritto all’identità personale e il diritto all’oblio, proprio «interrogando la coscienza sociale».

Ha proseguito affermando che «quindi sotto questo profilo è chiaro che la Corte è aperta e in questi rapporti soprattutto di carattere etico deve leggere la coscienza sociale e nel momento in cui vede emerso un nuovo diritto, quale che sia, automaticamente rientra tra i diritti inviolabili, quelli la cui violazione comporta, qui parlo da giudice di Cassazione, comporta un danno esistenziale che va riparato in caso di violazione».

Il riferimento alla coscienza sociale come fonte del diritto presenta plurime criticità. In via preliminare è da ricordare che il criterio della coscienza collettiva come fonte del diritto non è una invenzione del dott. Morelli, come lui stesso ha ammesso, ma risale molto indietro nel tempo. Volendo rimanere nell’ambito della dottrina giusfilosofica italiana, un sicuro riferimento è al celebre volumetto L’ordinamento giuridico di Santi Romano (la monografia nacque dalla fusione di due articoli pubblicati negli Annali delle Università toscane nel 1917 e nel 1918) che moltissima fortuna e influenza ebbero nel mondo della filosofia del diritto e non solo.

Scrive Romano: «Non solo si possono astrattamente immaginare, ma storicamente si danno, com'è del resto notissimo, esempi di ordinamenti giuridici, in cui non si rinvengono norme scritte o anche non scritte, nel senso proprio della parola. [...] Se così è, il momento giuridico, nell'ipotesi accennata, deve rinvenirsi, non nella norma, che manca, ma nel potere, nel magistrato, che esprime I'obbiettiva coscienza sociale» (Santi Romano, L’ordinamento giuridico, Sansoni, Firenze, 1945, p. 17).

Vero è che esistono ordinamenti giuridici privi di norme scritte: ad esempio la famiglia è uno di questi o pensiamo anche al diritto naturale. Ma affinchè le norme non scritte diventino regole di condotta per tutti i consociati di uno Stato occorre scriverle, ossia positivizzarle in testi. Non è sufficiente che il magistrato interpreti la coscienza collettiva, ossia interpreti questi ordinamenti giuridici privi di norme scritte, per aversi “diritto”.

La critica a Romano ci traghetta ad analizzare meglio le parole di Morelli che ricevono luce dalla tesi del primo. Le censure che si possono muovere alle riflessioni dello stesso sono le seguenti.

In primo luogo - ed è il rilievo critico più saliente - è la Costituzione ad indicarci quali devono essere le fonti del diritto. Per la nostra Costituzione fonti del diritto sono la Costituzione e gli ambiti parlamentare ed amministrativo, null’altro. La Costituzione non cita la coscienza collettiva, né l’operato dei giudici come interprete autorevole della sensibilità sociale. Il giudice interpreta e applica le norme, non le produce ricavandole dal sentito popolare. Un presidente della Corte Costituzionale, in ogni suo giudizio di carattere giuridico, dovrebbe riferirsi alla Costituzione e quindi appare particolarmente censurabile l’argomentazione articolata da Morelli che si svincola dal dettato costituzionale in materia di fonti del diritto.

In secondo luogo, i diritti fondamentali sono quelli tassativamente indicati dalla Costituzione, non altri. Uno dei compiti della Costituzione è indicare con chiarezza, al fine di tutelarli, alcuni diritti. Quelli non indicati sono esclusi dalle garanzie costituzionali. E non si possono far derivare i diritti fondamentali – come vorrebbe Morelli – tramite un procedimento analogico o addirittura per mezzo di una comparazione tra diritti costituzionali e valori sociali che non si risolva in un conflitto.

In terzo luogo, ammesso e non concesso che anche la coscienza sociale sia fonte del diritto, tale fonte metterebbe in serio pericolo proprio quei diritti fondamentali che il neo presidente vuole tutelare. Citiamo un passaggio di un testo dello studioso Giorgio Pino: «l’argomento della coscienza sociale

  • a) è un filtro meramente illusorio alla discrezionalità del giudice, che in realtà opera una selezione occulta dei parametri di valutazione tra una congerie di inputs che provengono dalla realtà sociale;
  • b) dà luogo a decisioni non trasparenti;
  • c) è uno strumento potenzialmente regressivo di interpretazione costituzionale» (G. Pino, Diritti e interpretazione. Il ragionamento giuridico nello Stato costituzionale, Il Mulino, Bologna, 2010, p. 139).

In altri termini: fare riferimento alla coscienza sociale ci consegna all’arbitrarietà del giudice che ad esempio potrebbe affermare che esiste il diritto al suicidio, all’eutanasia, di por fine alla vita dei propri figli perché così vuole il popolo italico. Gli esempi non sono casuali: Morelli fu il giudice che nel 2008 decise della sorte di Eluana Englaro. E sappiamo tutti come andò a finire.

In modo più analitico potremmo dire che riferirsi alla coscienza collettiva significa riferirsi ad un giudizio di valore presente nella maggioranza del tessuto sociale. Ma come scoprire cosa pensa la maggioranza delle persone? Il giudice non è un sociologo. Morelli – ed è forse il passaggio del suo intervento più agghiacciante – pensa di far ricorso anche ai giornalisti per tracciare una mappa del sentito comune sui temi etici. Dunque un fonte normativa intermedia tra la coscienza collettiva e il giudizio del magistrato andrebbe individuata nei mass media. Al di là di questo passaggio assai problematico del neo presidente, è da evidenziare che è molto difficile comprendere quale orientamento, su alcune condotte particolari oggetto di una vertenza giudiziaria, è maggioritario in una nazione. Dunque, come detto, il criterio della coscienza collettiva sfocerebbe in realtà nel criterio della coscienza singola del giudice che crederebbe, a torto o a ragione, che su tale questione il Paese la pensa in un certo modo. Oppure, eventualità ancor peggiore e assai più frequente, sarebbe il giudice a proiettare proprie personali visioni morali sul tessuto collettivo, sarebbe il giudice a far dire alla gente cose che non pensa e che rappresentano invece il convincimento del giudice stesso.

Un altro problema del criterio della coscienza collettiva è quello che, se alcuni diritti sono, per così dire, nascosti nel tessuto collettivo, il cittadino non sa se li sta violando. Dunque verrebbero meno il principio di legalità e quello di tassatività di una norma. Il primo predica che nessuno può essere punito se un fatto non è considerato reato da un'apposita legge, non dal sentito comune. Il secondo che la fattispecie che determina l’illecito deve essere individuato dettagliatamente. La coscienza collettiva non ci permette di individuare con precisione il diritto e dunque, parallelamente, quali condotte possono violarlo. Perciò la riparazione al diritto nato in seno alla sensibilità collettiva, a cui fa cenno Morelli, sarebbe illegittima proprio perché il cittadino deve sapere con certezza quali condotte sono lecite e quali non lo sono. Far poi affidamento al giudice per ottemperare al criterio di chiarezza e precisione, sposta solo il problema un poco più in là. Infatti il cittadino non può conoscere anzitempo quali diritti il giudizio del magistrato individuerà nella coscienza sociale.

Quinto inciampo. Se la coscienza sociale, nella sua maggioranza, è a favore della pedofilia, del razzismo, dello sfruttamento del lavoro minorile, della violenza sulle donne dobbiamo ugualmente sottostare alle sue indicazioni? Tali delitti diventano diritti perché la maggioranza li considera tali? Morelli potrebbe obiettare che i nuovi diritti fondamentali diventano tali solo se c’è un rapporto analogico con i diritti fondamentali indicati nella Costituzione o se non entrano in rotta di collisione con questi.  Dunque pietra di paragone per rilasciare la patente di diritti fondamentali sarebbe la Costituzione.

Ma come nuovi diritti possono spuntare dal tessuto sociale grazie alla libera valutazione del giudice, parimenti nuovi diritti potrebbero spuntare dalla Costituzione sempre grazie all’arbitrio del magistrato. In altre parole la valutazione del giudice potrebbe far dire alla Costituzione quello che vuole, anche contraddicendo la stessa Costituzione e permettendo l’ingresso di nuovi diritti provenienti dal «basso», ossia dalla società. In merito alla manipolabilità del dettato costituzionale siamo nel pieno della storia ordinaria: il principio costituzionale di libertà personale (art. 13) è servito per negare il diritto alla vita del nascituro; il divieto di sperimentazione sulle persone (art. 32) è stato interpretato come chiave di accesso all’eutanasia e così via. In tale approccio ermeneutico assai fluido, la Costituzione potrebbe comodamente adattarsi per qualificare diffuse condotte sociali oggettivamente anticostituzionali come nuovi diritti fondamentali.

Ultima difficoltà. Il sentito comune è ondivago. Possibile che un diritto che oggi è fondamentale perché così ha deciso la massa, domani non lo sia più, proprio perché la stessa massa ha cambiato opinione?

In conclusione l’uscita di Morelli ci fa comprendere dove, nel prossimo futuro, potrebbe soffiare il vento del diritto proveniente dalla Consulta: verso la qualificazione come diritti fondamentali di condotte - quali l’omicidio del consenziente, l’omogenitorialità, la conclusione di contratti “matrimoniali” tra coppie omosessuali, l’assunzione di droghe, etc. - che in realtà sono l’esatto opposto dei diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione. L’escamotage del riferimento alla coscienza collettiva potrebbe allora essere strumentale all’ottenimento di questo risultato.