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ELEZIONI USA

La classe operaia vota Trump. Sanders corre ai ripari

Alla fine Bernie Sanders ha ceduto: sosterrà Hillary Clinton, che la matematica ha laureato candidata presidenziale del Partito Democratico, evitando di metterle i bastoni tra le ruote. Lo farà, perché almeno un quinto dei suoi elettori potrebbe votare per Donald Trump pur di non vedere la Clinton.

Esteri 26_06_2016
Bernie Sanders sulla copertina di Rolling Stones

Alla fine Bernie Sanders ha ceduto: sosterrà Hillary Clinton, che la matematica ha laureato candidata presidenziale del Partito Democratico, evitando di metterle i bastoni tra le ruote. O così promette di fare ora che Donald J. Trump minaccia seriamente di portare il Partito Repubblicano alla Casa Bianca. È la guerra dei sondaggi ad averlo spaventato. Ma i sondaggi non dicono tanto che Trump sia in assoluto in ascesa su Hillary quanto che una buona parte dei “sandersiani” sarebbe disposta a votare il detestato “re del mattone” prestato alla politica pur di sconfiggere l’altrettanto detestata ex First Lady: addirittura poco meno di un quinto di loro, e comunque metà non voterà mai per la Clinton.

Sanders ha giocato tutta la propria sfida elettorale sommando il massimalismo da “vecchia Sinistra” all’ostilità per il modello liberal di Hillary. Anche Trump è sempre stato un nemico del “sandersismo”, ma più per naturale default (trattandosi di un milionario Repubblicano sciovinista) che per covata opposizione ideologica. Hillary invece no. Lei rappresenta l’esatto contrario di ciò che Sanders incarna. Lei è il modello neoborghese e lui la lotta di classe; lei la “via cinese” (ideologia + caricatura del mercato), lui pauperismo vintage; lei l’«Arricchirsi è glorioso!» di Deng Xiaoping, lui la “decrescita felice”; lei l’affarismo oligarchico di Wall Street, lui la sindacalizzazione delle masse; lei il relativismo aggressivo del pensiero debole, lui l’aggressività dogmatica dell’ideologia forte. Secondo la strumentazione linguistico-concettuale proposta dal pensatore cattolico brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), che identifica il processo plurisecolare di negazione storica di Dio in quattro grandi momenti rivoluzionari (Rivoluzione protestante, Rivoluzione Francese, Rivoluzione comunista e Rivoluzione relativista), Sanders è (nel contesto nordamericano) l’uomo della “terza Rivoluzione” socialcomunista nel momento in cui essa inizia a evolversi nella “quarta Rivoluzione” relativista (gli anni 1960, ovvero il “Sessantotto” statunitense) che nella Clinton ha un emblema. I due fanno insomma fatica a comprendersi e talora abitano addirittura pianeti diversi, ma nel grande contenitore rivoluzionario del Partito Democratico il pensiero di entrambi trova posto o se non altro è giustapposto.

Gli apprendisti stregoni perdono però spesso il controllo degli spiriti che con tanta tenacia evocano e proprio questo è accaduto a Sanders. Si è speso tutto per il ritorno del Partito Democratico a un veterosocialismo anticlintoniano e una parte cospicua del suo elettorato (forse persino potenzialmente fatale l’8 novembre) ha tradotto il suo sforzo in un plebeo “chiunque fuorché la Clinton” che adesso atterrisce. Sanders è un navigato uomo politico e sa benissimo che il “tanto peggio tanto meglio” è un suicidio. Certamente dopo aver patteggiato con accortezza le contropartite politiche con Hillary, ha dunque deciso che è ora di tirare il freno a mano. Ma potrebbe essere tardi, soprattutto perché non sempre la “base” ha chiari i tatticismi delle élite.

L’altra faccia di questa medaglia dice infatti che il trasbordo di una parte della “base” sandersiana nella fila di Trump (che da un po’ la corteggia con insistenza) è cosa meno assurda di quel che si potrebbe d’acchito pensare. Buona parte della “base” di Trump esprime un consenso non ideologico al tycoon newyorkese: quel che in Trump l’affascina sono le iperboli, le esagerazioni e i toni sopra le righe percepiti come “pane al pane e vino al vino”. Questo tipo di consenso non ideologico al leader non manca nemmeno in una certa parte della “base” di Sanders, il quale lo ha sempre saputo (anche se gli è tornato comodo far credere che i suoi fossero tutti socialisti convinti piuttosto che genericamente “anti-casta”) ma ora si rende conto che procedere oltre sarebbe scherzare con il fuoco.

È in questa “zona grigia” diversamente ideologica (più che davvero non ideologica), forse piuttosto ampia, che il populismo di Trump incontra il massimalismo di Sanders, ma soprattutto che due ali del loro elettorato generano uno spazio politico “oltre la Destra e la Sinistra” convinto che lo sfascismo e il “nuovo” siano la ricetta della felicità.

Del resto, la Sinistra di mezzo mondo è alle prese con la necessaria benché difficile (ennesima) trasformazione di se stessa, un’altra colossale perestrojka che scongiuri la scomparsa definitiva. E in tutto il mondo la parte più difficile da convincere è la “base” (e certi dirigenti recentemente disarcionati) che ancora indugia a modelli ideologici e “pastorali” sorpassati. È così in Italia tra Matteo Renzi e la “minoranza Dem”, ed è così in Francia tra François Hollande e Manuel Valls da un lato e la CGT dall’altro (facendo parlare l’opinionista Françoise Fressoz di «suicidio della Sinistra» su Le Monde del 24 giugno). Non diversi sono gli Stati Uniti della “nuova” Clinton e del “vecchio” Sanders. E però c’è anche la Spagna dove al PSOE bagna il naso Podemos, cioè la Izquierda che si evolve in un “grillismo” oltre gli “steccati tradizionali”. Il Sanders che affascina i giovani con il “rinnovamento” anche se parla ancora come la CGT assomiglia più a Podemos che al renzismo. Sia lui Democratico pre-liberal sia Trump Repubblicano post-conservatore sono scesi nell’arena come “guastatori”: quel che hanno prodotto è un trasversale “Movimento 5 Stelle” american-style che li supererà.