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COMUNISMO CINESE

La Cina stenta a ripartire dopo il lockdown. E Kerry parla di clima

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Nel giorno in cui John Kerry giunge a Pechino per parlare di cambiamento climatico, la Cina tira le somme della sua economia. Risultati magri post-lockdown che allontanano la decarbonizzazione. 

Economia 18_07_2023
Banca del Popolo a Pechino

Nel giorno in cui John Kerry, “ambasciatore per il clima” degli Usa, giunge a Pechino, a discutere di lotta al cambiamento climatico, la Cina tira le somme della sua economia e scopre che la crescita è inferiore rispetto al previsto. Anzi, la disoccupazione giovanile sta raggiungendo livelli record.

Prima di partire per Pechino, Kerry, ex Segretario di Stato, ha dichiarato che gli Usa “in nessuna circostanza” pagheranno “riparazioni” ai Paesi in via di sviluppo per i presunti danni causati dal cambiamento climatico. Dopo aver rassicurato il Congresso con queste parole, a Pechino ha incontrato il suo omologo Xie Zhenhua, membro di un regime che, più di altro, spinge sulla retorica del “risarcimento” a favore dei Paesi del Sud Globale. Kerry dovrà ottenere, dalla Cina, un impegno a ridurre le emissione e fare la sua parte, considerando che, pur essendo ancora meno industrializzata degli Usa, è prima per emissioni di CO2 al mondo.

L’impegno per la decarbonizzazione stride con i dati macroeconomici appena pubblicati da Pechino. La crescita post-Covid è più lenta del previsto. Questo trimestre si registra un magro +0,8% del Pil rispetto al trimestre precedente, uno scenario da stagnazione per un Paese in cui c’è letteralmente tutto da costruire.

Su base annuale (dunque paragonato allo stesso periodo dell’anno scorso), la crescita di questo trimestre è del 6,3% del Pil, maggiore rispetto a quella del primo trimestre che era del 4,5%. Sembrerebbero le cifre di un boom economico, soprattutto se confrontate con la stagnazione dell’Italia e dei Paesi dell’Europa occidentale. Ma per la Cina è un dato molto negativo, soprattutto considerando che il 2022, anno di riferimento di questi dati di crescita, era un anno di stagnazione pura, in cui hub commerciali come Shanghai erano chiusi al traffico e le misure anti-pandemiche avevano di fatto paralizzato l’economia. Il governo di Pechino aveva previsto una crescita annuale del 5% e questi dati reali stanno mettendo seriamente a rischio il risultato.

Che le cose non vadano troppo bene per la seconda economia del mondo è dimostrato dai dati sulla crescita della disoccupazione giovanile. Il dato divulgato ieri parla di un 21,3% di disoccupati fra i 16 e i 24 anni. Ed è un dato in continua crescita.

La soluzione offerta da Pechino è quella di ordinare alla Banca del Popolo (la banca centrale cinese) di tagliare i tassi di interesse, in modo da stimolare la circolazione del denaro. Ma finora questa politica ha avuto scarsi effetti sull’economia reale. Non sono i soldi che mancano, dunque, ma proprio la volontà di investirli in nuove attività. Per i prossimi mesi, dunque, si attendono nuove misure di stimolo, molto più dirette, da parte delle autorità comuniste.

Il rallentamento della crescita cinese è la dimostrazione che un Paese in lockdown per così tanto tempo e in modo così rigido, non riesce a ripartire a comando. Quella di un’economia cinese “unica immune” al Covid e alle misure anti-pandemiche era un’altra delle tante illusioni diffuse da Pechino. Dopo aver ricevuto ordini arbitrari, spesso senza neppure preavvisi, di serrare intere aree metropolitane con decine di milioni di abitanti, di chiudere il porto di Shanghai al traffico internazionale, di fermare intere aree industriali, fra la gente si è evidentemente diffusa una profonda sfiducia.

Questi dati, inoltre, renderanno ancora più difficile da raggiungere l’obiettivo di una politica internazionale “verde”, di cui Kerry è il principale inviato. Se la seconda economia del mondo deve far ripartire l’economia a pieno regime, difficilmente dedicherà troppe risorse alla decarbonizzazione. Che per altro, secondo i suoi promotori, molto spesso fa rima con deindustrializzazione.