La Chiesa italiana e l’autonomia differenziata
Diversi vescovi italiani si sono espressi contro la legge sull’autonomia differenziata, ma con un approccio slegato dai principi della Dottrina sociale della Chiesa. Piuttosto, si sposano gli slogan della sinistra, in questa come in altre occasioni.
La legge del governo Meloni sull’autonomia differenziata non piace ai vescovi italiani. Molti di loro lo hanno detto esplicitamente, prima di tutti il cardinale Matteo Zuppi, loro presidente. Ora si apprende addirittura che a Napoli sono state raccolte firme in chiesa e in parrocchia in vista del referendum abrogativo.
Da tutto ciò si ha una ulteriore conferma che i vescovi italiani hanno smesso di adoperare i principi della Dottrina sociale della Chiesa quando entrano in questioni politiche. Lo abbiamo visto a suo tempo con la privatizzazione dell’acqua, poi con le trivelle, quindi il Covid, le migrazioni e, di recente, le elezioni europee. I criteri di giudizio utilizzati si riferiscono ad un certo qualunquismo solidaristico ed eticheggiante che sposa gli slogan della sinistra di piazza. Per condannare l’autonomia differenziata i vescovi fanno proprio lo slogan del Partito democratico – “vogliono spaccare l’Italia” – e non vanno più in là. Impegnano il Vangelo in piccole scelte politiche e, per di più, di parte. Sono così sicuri che la coesione nazionale sia ben servita dall’attuale centralismo statalistico con tutte le sue ingiustizie? Sono così sicuri che l’attuale strutturazione delle regioni voluta dalla riforma costituzionale degli inizi del terzo millennio susciti autentica responsabilità per il bene comune?
Si osserva anche la stranezza per cui essi intervengono con grande decisione su tematiche di questo genere che rimangono, nella loro natura, suscettibili di diverse soluzioni, mentre non penserebbero mai di raccogliere firme nelle parrocchie per appoggiare la richiesta dell’utero in affitto come reato universale, per non parlare della richiesta di una modifica della legge 194 sull’aborto, questioni che invece non possono avere diverse e discrezionali soluzioni.
La cultura dei vescovi italiani è quindi la cultura liberal che predica il dialogo con tutti e la solidarietà integrale ma solo a parole, perché nei fatti è portatrice di un nuovo integralismo escludente. Il cavallo di battaglia di questa cultura cattolica-liberal è l’adesione incondizionata alla Carta costituzionale, ma in questo caso la Costituzione stessa ha istituito le regioni e nel suo testo non c’è nessun passo che impedisca un’evoluzione verso nuove forme di autonomia. Perché i vescovi, senza entrare nel merito tecnico della legge, non hanno esposto con chiarezza il senso del principio di sussidiarietà, fornendo i criteri per una valutazione di questo testo legislativo alla luce della Dottrina sociale della Chiesa? Perché non hanno illuminato le menti dall’alto, invece di scendere in campo come uno dei tanti gruppi politici in lotta tra loro?
Stefano Fontana